Fusibile (Guida pratica)

Uno degli aspetti più importanti nella progettazione di sistemi elettronici è la protezione contro le sovracorrenti. Il fusibile elettrico è un componente di sicurezza che permette di proteggere un circuito, o una sua parte, da livelli di corrente troppo alti e quindi serve ad evitare gli effetti di un guasto elettrico. Il fusibile è il primo componente da verificare in presenza di un guasto elettrico. E’ un componente molto economico, svolge un ruolo di protezione dei circuiti e lo troviamo quasi ovunque dagli elettrodomestici alle auto. In questo articolo vedremo in cosa consiste un fusibile, a cosa serve e come sceglierlo.

Cos’è il fusibile

Il fusibile è un dispositivo di protezione contro le sovracorrenti messo a protezione di un circuito e costituito un elemento metallico che, in caso di picchi di corrente, si fonde ed interrompe il circuito. E’ di piccole dimensioni, economico e generalmente provvisto di trasparenze che lo rendono facilmente ispezionabile. Lo troviamo nelle auto, negli elettrodomestici ma più in generale in quasi tutti i dispositivi elettrici. Il fusibile svolge la sua funzione di protezione quando è posto in serie al circuito da proteggere. I fusibili presenti in commercio possono avere diverse forme, dimensioni e caratteristiche ma svolgono sempre l’unico compito di proteggere un circuito dalle sovracorrenti.

A cosa serve il fusibile

Il fusibile serve a proteggere un circuito, oppure una sua parte, nel caso si verifichino delle sovracorrenti. Ogni circuito, infatti, è progettato per svolgere la sua funzione in un certo intervallo di valori di tensione e di corrente. In caso di guasto oppure di un comportamento anomalo nei circuiti si può verificare un picco di corrente. Un picco di corrente si può verificare per svariati motivi come ad esempio un cortocircuito oppure un sovraccarico. Nel normale funzionamento di un circuito è tipico avere delle fluttuazioni di tensione e corrente, tale fluttuazioni però devono essere nei limiti di tolleranza dei componenti utilizzati altrimenti questi potrebbero rompersi o portare a funzionamenti anomali del circuito. Il fusibile serve a protegge un circuito nell’evento di una sovracorrente ed in particolare quando questa supera un certo livello oltre il quale potrebbe creare dei danni irreversibili ai componenti.

Prima pagina dello schema elettrico di una macchina automatica. In rosso sono indicati i fusibili messi a protezione di ogni ramo dell’alimentazione.

Il fusibile viene generalmente posto sulle linee di alimentazione e, quando interviene, interrompe la continuità di una linea come se fosse un interruttore permettendo di preservare il resto della circuteria. Se non venisse inserito un dispositivo di protezione dalle sovracorrenti come il fusibile, in caso di sovraccarico oppure di cortocircuito, il circuito comincerebbe velocemente ad assorbire sempre più corrente, questo porterebbe a conseguenze disastrose portando al cedimento degli isolamenti, a creare ulteriori cortocircuiti, e rovinando irrimediabilmente altri componenti portando anche al rischio del generarsi di fiamme. Il fusibile serve proprio ad evitare di giungere a condizioni critiche che possono essere pericolose per l’utilizzatore e per il dispositivo stesso. Il fusibile è un componente volutamente “debole” all’interno di un circuito e, nel caso di parametri di corrente (ma eventualmente anche di tensione) diversi da quelli nominali con il suo intervento, si “sacrifica” pur di proteggere gli altri componenti.

Come è fatto un fusibile?

Un fusibile è costituito da due terminali collegati tra loro tramite un elemento piuttosto sottile come un filamento metallico conduttore. Il fusibile è fatto così perché è destinato ad essere posto in serie su una linea di alimentazione (o di segnale). Questo elemento altro non è se non una porzione di filo con delle caratteristiche particolari e molto utili in caso di sovracorrente. Nella figura seguente si possono osservare gli elementi costituenti un fusibile ovvero i terminali ed il filamento per due tipologie molto comuni di fusibile cioè quello a cartuccia e quello per automotive.

Struttura tipica dei fusibili. A sinistra un fusibile a cartuccia ed a destra un fusibile per automotive. I terminali permettono il posizionamento del filamento metallico in serie alla linea che si vuole proteggere.

Sulla base delle caratteristiche del filamento metallico vengono definiti i parametri di un fusibile che vedremo nel paragrafo successivo. Tale elemento rende infatti il fusibile “debole” nel caso di picchi di corrente.

Come funziona il fusibile

Il fusibile funziona come un interruttore automatico che, quando la corrente che lo attraversa è troppo alta, interrompe il circuito a valle ovvero lo seziona dalla sua alimentazione.

Possiamo considerare 3 fasi di funzionamento di un fusibile ovvero la fase di funzionamento normale cioè a regime del circuito, la fase in cui la corrente è nell’intorno della corrente nominale del circuito e la fase in cui la corrente che attraversa il fusibile ha di molto superato la corrente nominale. Consideriamo ai fini della spiegazione del funzionamento del fusibile il circuito mostrato nella figura seguente dove, per semplicità, il circuito a valle del fusibile è rappresentato da un carico resistivo.

Schema esemplificativo che mostra un fusibile da 20 A in un circuito

Per capire meglio l’andamento della corrente è stato posto in serie, a monte del fusibile, un amperometro per la misura della corrente che circola nel circuito.

Il fusibile, nel funzionamento normale, ovvero in presenza di valori di corrente inferiori alla corrente nominale, assicura continuità tra il circuito a monte e quello a valle del fusibile. Quindi in condizioni normali il fusibile può essere considerato praticamente “trasparente” ai fini dell’analisi del funzionamento di un circuito.

Quando la corrente che attraversa il fusibile si avvicina e supera (di poco) la corrente nominale, il fusibile inizia a surriscaldarsi in maniera importante. In questa fase il filamento del fusibile, date le caratteristiche fisiche del materiale che lo compone, comincia a reagire essendo molto sensibile all’aumento di corrente. In generale i fattori che governano la reazione del filamento sono la conducibilità del materiale e quindi lo spessore del filamento stesso.

Superata la soglia critica di corrente, il filamento del fusibile si rompe interrompendo la continuità con il circuito a valle. Il resto del circuito a valle rimane isolato dall’alimentazione. Il comportamento del fusibile è quello di un interruttore automatico che, una volta superati determinati valori di corrente, “spegne” il resto del circuito.

Nella figura seguente vediamo uno schema di queste tre fasi di funzionamento appena descritte.

Principio di funzionamento di un fusibile

Nei fusibili la rottura del filamento avviene per effetto Joule ovvero all’aumentare della corrente l’energia elettrica si trasforma in energia termica che modifica la struttura fisica del filamento fino a rompersi.

Nel caso di sovraccarico oppure corto circuito il fusibile interromperà il circuito prima che la corrente di guasto raggiunga il suo massimo. Dal verificarsi del guasto il fusibile inizia a reagire alla corrente che riceve e possono distinguere due fasi: la prima detta dei pre-arco e la successiva detta di arco.

Caratteristica tempo / corrente del fusibile

Nella figura precedente vediamo l’andamento della corrente di guasto e la corrente effettiva che scorre nel circuito all’intervento del fusibile in funzione del tempo cioè quella che viene chiamata la caratteristica tempo-corrente del fusibile.

Le caratteristiche tempo-corrente di un fusibile elettrico descrivono la relazione tra il tempo impiegato dal fusibile per aprirsi (bruciare) e l’entità della corrente che lo attraversa. Queste caratteristiche sono tipicamente rappresentate su un grafico noto come curva tempo-corrente di cui un esempio è mostrato nella figura precedente.

La curva tempo-corrente illustra la risposta di un fusibile alle condizioni di sovracorrente. Mostra i diversi livelli di corrente e il tempo corrispondente impiegato dal fusibile per interrompere il circuito. La curva è suddivisa in diverse regioni o zone, ognuna delle quali indica un comportamento specifico del fusibile.

  1. Zona di pre-arco: in questa regione, la corrente è relativamente bassa e il fusibile funziona senza ritardi significativi. Al crescere della corrente cresce la temperatura dell’elemento fusibile che raggiunge il punto di fusione sino a rompersi.
  2. Zona di arco: l’elemento è fuso ed interrotto ma la corrente è ancora tale da poter generare un arco elettrico che rende il fusibile ancora conduttivo. Nel frattempo si sono raggiunte temperature sempre più elevate in virtù del calore generato dall’arco che vaporizza il materiale dell’elemento fusibile portando all’estinzione dell’arco e quindi alla completa apertura del circuito.

È importante notare che le caratteristiche tempo-corrente dei fusibili sono non lineari e variano a seconda di fattori quali il tipo di fusibile, la costruzione, la temperatura ambiente e la presenza di eventuali ulteriori fattori specificati dal produttore.

Parametri di un fusibile

I parametri dei fusibili sono:

  • Corrente nominale: è il valore di corrente [A] che porta alla fusione del filamento del fusibile. A tale valore di corrente, il filamento fonde e quindi il fusibile interviene interrompendo la continuità con il circuito a valle. Tutte le caratteristiche di corrente di un fusibile fanno riferimento ad una temperatura ambiente di 25°C.
  • Tensione nominale: è il valore di tensione [V] massimo entro il quale è assicurato il corretto funzionamento del fusibile ovvero la sua capacità di intervenire adeguatamente.
  • Potere di interruzione: è il valore massimo di corrente [A] che il fusibile è in grado di interrompere quando è già avvenuta la fusione del filamento. Tale valore è sempre superiore al valore della corrente nominale. Quando il fusibile è attraversato da una corrente superiore a quella nominale il suo filamento fonde e quindi il circuito è aperto. Tuttavia se il fusibile è attraversato da una corrente molto superiore a quella nominale, nonostante il filamento sia rotto, la corrente potrebbe essere talmente alta che si potrebbero creare degli archi elettrici e quindi la corrente potrebbe fluire nei circuiti a valle. Il potere di interruzione indica quindi il valore massimo di corrente a cui è garantito che il fusibile può garantire l’interruzione del circuito.
  • Resistenza nominale a freddo: è il valore di resistenza [Ω] del fusibile quando è percorso da una corrente non superiore al 10% della corrente nominale.
  • Caratteristica di fusione I2t: è il valore di energia necessario per far intervenire il fusibile in un tempo molto breve, generalmente inferiore a 10 millisecondi. È espresso in Ampere quadri al secondo [A2sec]. Questo parametro è utile per capire la capacità di intervento di un fusibile in presenza di un surge di corrente ovvero di un impulso molto alto in ampiezza e molto breve in durata. Questo valore viene ottenuto dal fabbricante del fusibile applicando impulsi di corrente della stessa durata (tipicamente 8 millisecondi) ma di intensità sempre crescente finchè il filamento non si rompe.
  • Caduta di tensione: è il valore massimo di caduta di tensione [mV] che si ha per via della resistenza equivalente del fusibile quando questo è percorso dalla corrente nominale.
  • Materiali: nella scheda dati di un fusibile è tipicamente presente la descrizione del tipo di materiale di cui sono costituiti ovvero il corpo (es. il tubo in vetro), i terminali, il filamento.
  • Dimensioni: le tre dimensioni [mm] dell’ingombro del fusibile
  • Temperatura di esercizio: il range di temperature [°C] entro il quale il fusibile è in grado di operare correttamente.

Sigla dei fusibili

I fusibili presentano una sigla per la facile identificazione su cui sono riportati:

  • Logo del fabbricante
  • Velocità di intervento: espressa tramite una delle seguenti lettere TT (oppure RR, fusibile super ritardato), T (oppure R, fusibile ritardato), M (fusibile medio), F (fusibile rapido), FF (oppure AA, fusibile ultrarapido). I fusibili TT sono i più lenti a reagire ad una sovracorrente e quindi ad aprire il circuito mentre i fusibili FF sono quelli più veloci.
  • Corrente nominale: espressa in Ampere [A] oppure milliAmpere [mA]
  • Potere di interruzione: espressa dalla lettera L (basso) oppure H (alto). L indica che è sufficiente una bassa corrente per avere l’apertura del fusibile mentre H indica che è necessaria un livello alto di corrente per l’apertura del fusibile.
  • Tensione nominale: espressa in Volt [V] .

Nella figura seguente vediamo un esempio di sigla di un fusibile a cartuccia.

Esempio struttura sigla fusibile

Un’altra sigla che possiamo trovare sui fusibili è quella relativa al campo di applicazione ed alla destinazione d’uso. È costituita da 2 lettere, la prima minuscola (“a” oppure “g”) ed una seconda maiuscola (“G”, “M”, “R” o “S”, “PV”). Vediamo di seguito il significato di queste due lettere.

  • a (associated): tipo di fusibile detto a “campo parziale” oppure “campo ridotto”. L’apertura del fusibile avviene ad una corrente superiore al valore della corrente nominale. Deve essere utilizzato in combinazione con un altro dispositivo di protezione e fornisce unicamente protezione contro i corto-circuiti.
  • g (general): tipo di fusibile detto a “pieno campo” e per uso generico. L’apertura del fusibile è garantita per valori di corrente che vanno dal valore nominale al valore di del potere di interruzione. Fornisce protezione contro i corto-circuiti ed i sovraccarichi.
  • G: fusibile per la protezione ad uso generico come cavi e conduttori.
  • M: fusibile per la protezione specifica dei circuiti che alimentano i motori.
  • R oppure S: fusibile per la protezione specifica dei semiconduttori.
  • PV: fusibile per la protezione specifica dei circuiti dei sistemi fotovoltaici.

Di seguito alcuni esempi di sigle relative ai fusibili più comuni.

  • Fusibile gG: è il fusibile più utilizzato in quanto per applicazioni generiche e posto tipicamente a protezione di cavi e conduttori.
  • Fusibile aM: è un fusibile posto a protezione dei circuiti di alimentazione dei motori laddove è necessario tenere conto della corrente di spunto del motore stesso. Tipicamente lo si associa ad un relè con protezione termica per assicurare all’insieme anche la protezione contro i sovraccarichi.
  • Fusibile gM: è un fusibile generico posto a protezione dei circuiti di alimentazione dei motori laddove la corrente di spunto del motore non richieda accorgimenti particolari.
  • Fusibile gPV: è un fusibile utilizzato negli impianti fotovoltaici per proteggere i pannelli dalle sovracorrenti che si possono presentare in caso di guasto di un modulo oppure di un pannello. Tipicamente utilizzati a protezione delle stringhe sono in grado di intervenire in presenza di sovracorrenti molto basse.

Tipi di fusibile

I fusibili elettrici sono dispositivi di sicurezza progettati per proteggere i circuiti elettrici e le apparecchiature da una corrente eccessiva. Ne esistono di vari tipi, ognuno con le proprie caratteristiche e applicazioni. Ecco alcuni tipi comuni di fusibili elettrici.

Fusibili a cartuccia

Fusibili a cartuccia

Questi fusibili sono costituiti da un corpo cilindrico in vetro, ceramica o altri materiali non conduttivi. Hanno due tappi terminali in metallo e un collegamento fusibile all’interno. I fusibili a cartuccia sono disponibili in diverse dimensioni e correnti nominali, rendendoli adatti a un’ampia gamma di applicazioni.

Fusibili a lama (detti anche a spina)

Fusibili a lama

I fusibili a lama, noti anche come fusibili plug-in, sono comunemente usati nelle applicazioni automotive. Hanno un corpo in plastica con due punte metalliche che si inseriscono in un portafusibili. I fusibili a lama sono disponibili in varie correnti nominali e vengono generalmente utilizzati nei veicoli, nell’elettronica di consumo e nelle applicazioni a bassa potenza.

Fusibili ripristinabili (PTC)

Fusibili ripristinabili – PTC

Questi fusibili, noti anche come dispositivi polimerici a coefficiente di temperatura positivo (PTC) o fusibili ripristinabili, sono progettati per ripristinarsi automaticamente dopo una condizione di guasto. Hanno un materiale a base ceramica o polimerica che presenta un’elevata resistenza alle normali temperature di esercizio ma aumenta la resistenza quando la corrente supera il valore nominale. I fusibili ripristinabili sono comunemente usati nei dispositivi elettronici e nelle applicazioni in cui si desidera il ripristino automatico.

Fusibili termici

Fusibile termico

I fusibili termici, noti anche come interruttori termici, sono progettati per proteggere dal surriscaldamento. Contengono una lega fusibile o un materiale termosensibile che fonde ed apre il circuito quando la temperatura supera una certa soglia. I fusibili termici sono comunemente usati in apparecchi di riscaldamento, motori, trasformatori e altri dispositivi in ​​cui il controllo della temperatura è fondamentale.

Fusibili a semiconduttore

Fusibile a semiconduttore per PCB (LITTELFUSE, modello 0451005.MRL)

Questi fusibili sono specificamente progettati per proteggere i dispositivi a semiconduttore, come diodi, transistor e circuiti integrati, da una corrente eccessiva. I fusibili a semiconduttore hanno tempi di risposta rapidi e sono classificati per bassi valori di corrente per evitare danni ai componenti elettronici sensibili.

Fusibili ad alta tensione

Fusibile ad alta tensione (Sensata)

I fusibili ad alta tensione vengono utilizzati nei sistemi di distribuzione dell’energia elettrica per proteggere dalle sovracorrenti. Sono progettati per gestire alti livelli di tensione e grandi flussi di corrente. Nell’immagine sopra vediamo un tipico fusibile ad alta tensione per tensioni in continua pari ad 800 Vcc e corrente nominale pari a 200 A. Tali fusibili possono essere di vario tipo, quali fusibili di espulsione, fusibili limitatori di corrente e fusibili di potenza, ciascuno con caratteristiche e applicazioni specifiche.

Fusibili con percussore

Fusibile con percussore (ITALWEBER)

I fusibili con percussore sono utilizzati in combinazione con altri dispositivi per l’interruzione automatica della alimentazione della linea oppure per segnalazione. Sono dotati di un comparto dal quale, quando il fusibile interviene, fuoriesce un pin metallico.

Esempio di attivazione del pin all’intervento del fusibile a percussione

L’azione meccanica di questo pin attiva l’interruzione della linea oppure è utilizzata per accendere un segnale di avviso dell’intervento del fusibile. Internamente al fusibile è presente un sistema a molla che in caso di intervento spinge il pin all’esterno con una certa forza. In questi tipi di fusibili il costruttore riporta nella scheda dati oltre alla dimensione del pin anche la forza con cui fuoriesce.

Fusibili ad alta capacità di rottura

Fusibili ad alta capacità di rottura

I fusibili ad alta capacità di rottura sono chiamati ACR oppure, dall’inglese, HCR (High Rupturing Capacity). L’elemento fusibile è realizzato in metallo o lega con un punto di fusione elevato. I fusibili ARC sono noti per la loro elevata capacità di rottura, il che significa che sono in grado di interrompere in modo sicuro correnti di guasto elevate. Questa caratteristica garantisce che, anche in caso di guasto grave, il fusibile possa interrompere la corrente senza causare danni o pericoli eccessivi. I fusibili ARC sono progettati per fornire protezione contro cortocircuiti e sovraccarichi con diverse caratteristiche tempo-corrente. A seconda delle caratteristiche che ha imposto il fabbricante questi fusibili sono generalmente in grado di sostenere determinati livelli di corrente per un tempo specifico durante il quale, qualora la corrente rientrasse nei limiti stabiliti il fusibile non interviene.

Come scegliere il fusibile

La scelta del fusibile adatto alla protezione del nostro circuito deve essere svolta molto attentamente. È necessario tenere conto di diversi fattori e tenere conto di tutti i parametri e sigle descritte sin qui in questo articolo.

La scelta del fusibile giusto comporta la considerazione di vari fattori per garantire un’adeguata protezione del circuito elettrico. Ecco una guida passo passo su come scegliere un fusibile:

  1. Determina i parametri del circuito. Questi parametri includono la tensione del circuito (V), la corrente (I) e la frequenza. È possibile trovare queste informazioni nelle specifiche del circuito o utilizzando un multimetro per misurare la tensione e la corrente.
  2. Calcola la corrente nominale del circuito. Determina la corrente nominale o la corrente media che tipicamente fluirà nel circuito. Questo valore è fondamentale per selezionare un fusibile con una corrente nominale adeguata. È necessario prendere in considerazione fattori come la corrente di spunto o le correnti di avviamento che possono verificarsi durante l’accensione di un motore.
  3. Determina il tipo di fusibile. Selezionare il tipo di fusibile appropriato in base alle caratteristiche del circuito e al livello di protezione richiesto. I tipi di fusibili comuni includono fusibili ad azione rapida (F), ad azione ritardati (T) e ad alta capacità di rottura (ARC). I fusibili ad azione rapida forniscono una protezione rapida contro le sovracorrenti, mentre i fusibili ad azione lenta tollerano picchi di corrente temporanei.
  4. Scegli la corrente nominale. In base alla corrente nominale e al livello di protezione desiderato, selezionare un fusibile con una corrente nominale leggermente superiore alla normale corrente operativa del circuito, un valore tipico è il 25% in più della corrente nominale. Ad esempio se la corrente nominale è di 4 A, allora sarà utile inserire un fusibile da 5 A (il 25% della corrente nominale del circuito è 1 A). Il margine aggiuntivo aiuta a prevenire falsi scatti dovuti a leggere variazioni di corrente.
  5. Considera le condizioni ambientali. Fattori quali temperatura, umidità e altitudine possono influire sulle prestazioni del fusibile. Scegliere un fusibile adatto alle condizioni operative specifiche, assicurandosi che sia in grado di gestire l’intervallo di temperatura previsto e qualsiasi altro fattore ambientale rilevante.
  6. Controlla la tensione nominale. Verificare che la tensione nominale del fusibile sia uguale o superiore alla tensione operativa del circuito. Il superamento della tensione nominale può provocare archi elettrici o altri rischi per la sicurezza ed in generale non è assicurato il corretto funzionamento del fusibile.
  7. Controlla il valore del potere di interruzione del fusibile. Considerare il livello di corrente di guasto del circuito, che è la corrente massima che il fusibile deve essere in grado di interrompere in modo sicuro. Assicurarsi che il fusibile selezionato abbia un valore nominale di interruzione superiore al livello di corrente di guasto per evitare archi elettrici pericolosi o danni al fusibile.
  8. Considera le caratteristiche tempo-corrente. Se è necessaria una protezione temporizzata o ritardata, rivedere le caratteristiche tempo-corrente del fusibile. Queste specifiche indicano per quanto tempo il fusibile può sostenere condizioni di sovracorrente prima di scattare. Far corrispondere le caratteristiche di ritardo desiderate con i requisiti del circuito.
  9. Verifica le dimensioni. Considera le dimensioni fisiche e i requisiti per il montaggio del fusibile. Assicurarsi che il fusibile scelto rientri nello spazio disponibile e possa essere montato correttamente nel circuito o, eventualmente, nel portafusibili.
  10. Consulta la documentazione del produttore. Consulta la scheda tecnica, il catalogo o le specifiche tecniche del produttore del fusibile per verificare che il fusibile scelto soddisfi tutti i requisiti necessari per il circuito. Se del caso, verifica eventuali certificazioni per il mercato di riferimento (CE per l’Europa, UKCA per il Regno Unito, UL per gli Stati Uniti, CSA per il Canada, etc.).
  11. Ricontrolla e installa. Prima di finalizzare la selezione del fusibile, ricontrolla tutte le specifiche e assicurati che siano in linea con i requisiti del circuito. Una volta che hai ricontrollato, installa correttamente il fusibile, seguendo le istruzioni del produttore.

Simbolo grafico del fusibile

I simboli grafici utilizzati per indicare il fusibile negli schemi elettrici, in base alla norma EN 60617 sono i seguenti.

Tipo di resistoreIEC 60617
Fusibile (generico)
Fusibile, lo spessore indica la parte che rimane in tensione dopo l'apertura)
Fusibile con percussore
Interruttore tripolare con apertura automatica comandata da fusibile con percussore

Come capire se un fusibile è bruciato?

Fusibile bruciato (a sinistra) e fusibile intatto (a destra)

Per determinare se un fusibile elettrico è bruciato, è possibile seguire questi passaggi:

  1. Rimuovere l’alimentazione dal dispositivo e, successivamente, rimuovere il fusibile
  2. Ispezione visiva: nei fusibili a cartuccia o a lama il rivestimento è tipicamente in vetro oppure in plastica e questo per poter visivamente controllare lo stato del fusibile. Se il fusibile è bruciato allora l’elemento fusibile sarà spezzato. Talvolta è possibile anche riscontrare i segni di bruciatura sull’involucro.
  3. In alternativa all’ispezione visiva è possibile utilizzare un multimetro e verificare la continuità tra i contatti. Se il fusibile è intatto allora tra i contatti si potrà misurare una resistenza molto bassa (quasi zero) mentre se il fusibile è rotto si riscontrerà una resistenza alta (infinita).

Il fusibile in sintesi

Un fusibile elettrico è un dispositivo di sicurezza utilizzato per proteggere i circuiti elettrici dalla presenza di sovracorrente. Consiste in un filo sottile o una striscia di metallo che si scioglie quando viene attraversato da una corrente eccessiva, interrompendo così il circuito e prevenendo danni all’impianto elettrico o agli elettrodomestici. Il fusibile è alloggiato in un involucro protettivo, spesso in vetro o ceramica, per evitare il contatto con l’ambiente circostante. Una volta fuso, il fusibile deve essere sostituito per ripristinare la funzionalità del circuito. I fusibili sono componenti essenziali negli impianti elettrici in quanto proteggono da cortocircuiti e sovraccarichi, garantendo sicurezza e prevenendo danni alle apparecchiature.


Grado di protezione IP (EN 60529)

Ti è mai capitato di leggere l’etichetta di un prodotto elettrico e vedere la sigla “IP” seguita da un numero a doppia cifra? Se sei arrivato sin qui probabilmente sì ma forse vorresti capirne di più sul significato di quelle lettere e di quei numeri. In questo articolo vedremo il significato di questo codice così tanto utilizzato. Se infatti siamo attenti a leggere l’etichetta di un prodotto è facile trovare l’indicazione IP. Certo, dipende dal tipo di prodotto, ma per molte tipologie l’indicazione è obbligatoria ed è anche utile all’utilizzatore finale conoscerla così da capire se il prodotto che si decide di utilizzare è adatto all’applicazione. Il grado di protezione IP si trova su tantissime tipologie di prodotti elettrici molto diverse come motori, quadri elettrici ma anche elettrodomestici e persino lo spazzolino elettrico!

Vediamo di seguito cosa significa grado di protezione IP, cosa significano le cifre e su cosa si basa questo grado.

Cosa è il grado IP

Grado IP, o meglio grado di protezione IP, significa il livello di protezione dell’involucro di un prodotto elettrico all’ingresso di corpi solidi e di liquidi. IP significa in inglese Ingress Protection ed i due numeri che seguono questa sigla indicano il livello di protezione. Dopo IP sono presenti sempre 2 cifre ed opzionalmente una o due lettere. La prima cifra indica il livello di protezione dell’involucro dall’ingresso dei solidi mentre la seconda cifra indica il livello di protezione dell’involucro dall’ingresso dei liquidi.

E’ una classificazione creata dallo IEC (International Electrotechnical Commission) per indicare quanto l’involucro di un prodotto elettrico è in grado di resistere all’ingresso di solidi oppure di acqua. Questo è un aspetto particolarmente importante relativo alla sicurezza elettrica in quanto sia l’ingresso di polvere che l’ingresso di acqua possono portare a situazioni di pericolo elettrico.

E’ facile immaginare come la presenza di acqua su un circuito elettrico sia un qualcosa di indesiderato per il facile crearsi di cortocircuiti che possono danneggiare i componenti e potenzialmente portare ad un corto tra le linee di alimentazione e terra generando pericolo di scossa elettrica. Lo stesso vale anche per la polvere che può essere conduttiva e generare appunto pericoli di sicurezza elettrica. Per qualsiasi dispositivo messo in commercio viene indicata una destinazione d’uso che ne indica in quali casi l’utilizzatore può impiegare il prodotto ma anche un ambiente di utilizzo che dipende dalla tipologia del dispositivo. Alcuni ambienti sono soggetti per esempio alla presenza di acqua oppure essere soggetti alla presenza di polveri.

Quando nell’involucro di un prodotto elettrico si ha l’ingresso di acqua o polvere quello che succede è che si vanno a ridurre le distanze in aria e superficiali, ad esempio, tra le parti di un circuito a polarità opposta, oppure tra le linee conduttive e la terra oppure tra le linee a tensione di rete e quelle a bassa tensione. In conseguenza di questo, gli isolamenti originali non sono più in grado di garantire un livello di sicurezza tale da non generare pericoli e si possono facilmente creare degli archi elettrici. Infatti basti pensare che non è necessario che un circuito stampato venga immerso in acqua perché si generino degli archi elettrici ma sono sufficienti delle piccole gocce di umidità o condensa e, in maniera analoga, lo stesso vale per la polvere.

Quali sono le norme per la valutazione del grado IP?

In Europa la norma tecnica di riferimento per la valutazione del grado IP è la IEC 60529 “Gradi di protezione degli involucri (Codice IP)”. La norma è stata pubblicata da IEC nel 1997 e da allora sono state introdotti 2 aggiornamenti in cui principalmente sono state introdotte e meglio definite alcune condizioni di prova e sono state definite delle lettere addizionali che si possono aggiungere al codice IP. La norma IEC 60529 stabilisce la classificazione della protezione degli involucri per i prodotti elettrici con tensione nominale sino a 72,5 kV e le relative modalità di prova per attestarne la conformità.

Per il mercato del Nord America il grado di protezione degli involucri del materiale elettrico viene espresso in “Tipi”. Le norme di riferimento per gli involucri sono NEMA 250 “Enclosures for Electrical Equipment (1000 Volts Maximum)” oppure le norme di prodotto UL e CSA.

Cosa indica il grado di protezione IP?

Il grado di protezione IP indica il livello di protezione dell’involucro di un prodotto elettrico che il fabbricante dichiara contro l’ingresso di materiali solidi ed acqua. Il grado di protezione IP viene espresso tramite un codice costituito da due cifre a cui possono essere aggiunte una o due lettere. Ad ogni cifra o lettera corrisponde un livello o una caratteristica relativa alla protezione dell’involucro.

In alternativa alle cifre si può utilizzare la lettera “X” per indicare che il prodotto non è stato provato per quel tipo di protezione. Ad esempio, se il fabbricante di un prodotto dichiara un grado IP2X significa che il prodotto è stato provato che resiste ad un livello di protezione “2” contro l’ingresso di materiale solido come la polvere mentre non è stato provato contro l’ingresso di liquidi quali l’acqua.

Ad ogni cifra o lettera del grado IP corrisponde un significato specifico. Il significato di cifre e lettere è riassunto nei paragrafi successivi.

Struttura del codice IP

Il codice IP è costituito dalle lettere “IP” seguite da due cifre e, opzionalmente, da una o due lettere. Nello schema seguente è mostrata la struttura generale per un esempio di codice IP.

Struttura del Codice IP

Il codice va letto da sinistra a destra ed ogni posizione indica un tipo di protezione. Vediamo di seguito un esempio della struttura di un codice IP.

Modello di struttura di un Codice IP

Significato del codice IP

Il codice IP viene indicato attraverso le lettere IP seguite da due cifre e, opzionalmente, da due lettere. Ogni posizione ha un significato e dei valori ammissibili.

Cifre caratteristiche del Codice IP

Le cifre che seguono le lettere IP vengono chiamate in gergo “cifre caratteristiche”.

La prima cifra caratteristica indica il grado di protezione dell’involucro del dispositivo contro l’ingresso dei corpi solidi (protezione del dispositivo) e contro l’accesso delle persone alle parti in tensione (protezione delle persone). Può variare da 0 (zero) a 6 (sei) dove zero indica il minimo ovvero che il dispositivo non ha alcuna protezione mentre 6 indica la protezione massima.

La seconda cifra caratteristica indica il grado di protezione dell’involucro contro l’ingresso di acqua e può variare da 0 (zero) a 9 (nove). Zero indica il minimo ovvero che il dispositivo non è protetto dall’ingresso dell’acqua mentre 9 indica la protezione massima.

E’ convenzione indicare la lettera “X”, al posto di una cifra caratteristica, nel caso in cui il dispositivo non sia stato testato per quella cifra caratteristica. Ad esempio, IP2X indica che non è stato testato contro l’ingresso di acqua; IPXX indica che non è stato testato né contro l’ingresso dei solidi né contro l’ingresso dell’acqua.

Lettere opzionali del Codice IP

Dopo le cifre caratteristiche il fabbricante del dispositivo può indicare una o più lettere. La prima lettera dopo le cifre caratteristiche è detta “lettera addizionale” mentre la seconda è detta “lettera supplementare.

La lettera addizionale può essere una delle seguenti: A, B, C, D. La lettera addizionale rappresenta il grado di protezione contro l’accesso a parti pericolose ed è una estensione facoltativa del Codice IP. Non è quindi obbligatoria ma può essere inserita quando la protezione delle persone contro l’accesso a parti pericolose cioè il contatto con parti in tensione, è superiore a quanto indicato nella prima cifra caratteristica. Ha un significato analogo a quello della prima cifra caratteristica. La differenza rispetto alla prima cifra caratteristica è che la lettera addizionale indica unicamente il livello di protezione delle persone contro l’accesso a parti pericolose.

La lettera supplementare può essere una delle seguenti: H, M, S, W. La lettera supplementare indica delle caratteristiche particolari del dispositivo e, come la lettera addizionale, è una estensione facoltativa del codice IP.

Vediamo nella tabella seguente il dettaglio del significato di ogni cifra e lettera che possiamo trovare in un codice IP.

ElementoCifre / LettereSignificato per la protezione dell'involucro
Lettere caratteristicheIP//
Prima cifra caratteristica
(livello di protezione dalla penetrazione di corpi solidi estranei)
0Non protetto
1Protezione delle persone contro l’accesso a parti pericolose col dorso della mano e protezione dell'involucro contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 50 mm di diametro
2Protezione delle persone contro l'accesso a parti pericolose con un dito e protezione dell'involucro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 12,5 mm di diametro
3Protezione delle persone contro l'accesso a parti pericolose con un attrezzo e protezione dell'involucro contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 2,5 mm di diametro
4Protezione delle persone contro l'accesso a parti pericolose con un filo e protezione dell'involucro contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 1,0 mm di diametro
5Protezione delle persone contro l'accesso a parti pericolose con un filo e protezione dell'involucro protetto contro la polvere
6Protezione delle persone contro l'accesso a parti pericolose con un filo e protezione totale dell'involucro contro la polvere
Seconda cifra caratteristica
(livello di protezione dalla penetrazione di acqua con effetti dannosi)
0Non protetto
1Protezione dell'involucro contro la caduta verticale di gocce d'acqua
2Protezione dell'involucro contro la caduta verticale di gocce d'acqua con involucro inclinato verso l'alto di 15°
3Protezione dell'involucro contro la pioggia
4Protezione dell'involucro contro gli spruzzi d'acqua
5Protezione dell'involucro contro i getti d'acqua
6Protezione dell'involucro contro i getti potenti di acqua
7Protezione dell'involucro contro gli effetti dell'immersione temporanea
8Protezione dell'involucro contro gli effetti dell'immersione continua
9Protezione dell'involucro contro getti d'acqua ad alta pressione e temperatura elevata
Lettera
addizionale
(opzionale)
AProtezione delle persone contro l’accesso con il dorso
della mano alle parti pericolose. Può essere utilizzato se la prima cifra caratteristica è "X" oppure ha grado 0. Es. IPXXA oppure IP0XA
BProtezione delle persone contro l’accesso con il dito alle parti pericolose. Può essere utilizzato se la prima cifra caratteristica è "X" oppure ha grado inferiore a 2. Es. IPXXB oppure IP0XB oppure IP1XB
CProtezione delle persone contro l’accesso con un attrezzo alle parti pericolose. Può essere utilizzato se la prima cifra caratteristica è "X" oppure ha grado inferiore a 3. Es. IPXXC oppure IP0XC oppure IP1XC oppure IP2XC.
DProtezione delle persone contro l’accesso con un filo alle parti pericolose. Può essere utilizzato se la prima cifra caratteristica è "X" oppure ha grado inferiore a 4. Es. IPXXD oppure IP0XD oppure IP1XD oppure IP2XD oppure IP3XD.
Lettera
supplementare
(opzionale)
HInformazione supplementare indicante che il dispositivo è ad alta tensione.
MInformazione supplementare indicante che il dispositivo è stato provato contro gli effetti dannosi dovuti all’ingresso d’acqua, quando le parti mobili dell’apparecchiatura sono in moto.
SInformazione supplementare indicante che il dispositivo è stato provato contro gli effetti dannosi dovuti all’ingresso d’acqua, quando le parti mobili dell’apparecchiatura NON sono in moto.
WInformazione supplementare indicante che il dispositivo è adatto all'utilizzo in condizioni atmosferiche particolari ed è dotato di protezioni addizionali.

Metodi di prova per la verifica del Codice IP

Per ogni cifra caratteristica ed ogni lettera addizionale esiste una prova che deve essere effettuata e superata prima di poter apporre il Codice IP sul dispositivo. Queste prove sono “prove di tipo” ovvero viene provato un singolo campione del dispositivo.

Per quanto riguarda le prove per la prima cifra caratteristica 5 e 6 occorre fare delle considerazioni particolari ovvero occorre definire in quali delle seguenti categorie rientra il dispositivo:

  • Categoria 1: durante il normale funzionamento del dispositivo la sua pressione interna può essere inferiore a quella atmosferica dell’ambiente ad esempio in presenza di cicli termici.
  • Categoria 2: durante il normale funzionamento del dispositivo la sua pressione interna non differisce dalla pressione atmosferica dell’ambiente.

Nel caso di dispositivi di Categoria 1, nell’involucro deve essere predisposto un foro cui va collegato un raccordo di aspirazione con un tubo attraverso il quale, per mezzo di una pompa, viene creata una depressione all’interno del dispositivo . Questo serve a verificare la tenuta delle parti interne che possono essere vulnerabili all’ingresso della polvere.

In generale, è sempre buona prassi verificare la presenza di eventuali norme di prodotto che possano specificare dei metodi di prova particolari o delle prove aggiuntive. Qualora ci siano delle norme di prodotto applicabili queste hanno sempre priorità su norme generiche come la IEC 60529.

Nella tabella seguente viene mostrato il metodo di prova utilizzato per ogni cifra caratteristica e lettera addizionale.

ElementoCifre / LettereSignificato per la protezione dell'involucroMetodo di prova
Lettere caratteristicheIP////
Prima cifra caratteristica
(livello di protezione dalla penetrazione di corpi solidi estranei)
0Non protettoNessuna prova.
1Protetto contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 50 mm di diametroSi utilizza una sonda a sfera del diametro di 50 mm in ogni apertura dell'involucro. L’intero diametro della sfera non deve passare attraverso un’apertura dell’involucro e la parte della sonda che penetra nell'involucro deve comunque mantenersi ad una distanza adeguata dalle parti pericolose.
2Protetto contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 12,5 mm di diametroPer verificare l'accesso alle parti pericolose si utilizza il dito di prova articolato che, se introdotto totalmente, non deve entrare in contatto con le parti in tensione. Per verificare l'accesso dei corpi solidi si utilizza come sonda una sfera del diametro di 12,5 mm in ogni apertura dell'involucro. L’intero diametro della sonda non deve passare attraverso un’apertura dell’involucro e la parte della sonda che penetra nell'involucro deve comunque mantenersi ad una distanza adeguata dalle parti pericolose.
3Protetto contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 2,5 mm di diametroSi utilizza come sonda l'asta di prova con sezione di 2,5 mm, in ogni apertura dell'involucro. La sonda non deve per nulla penetrare nell'involucro.
4Protetto contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 1,0 mm di diametroSi utilizza come sonda il filo di prova con sezione di 1 mm, in ogni apertura dell'involucro. La sonda non deve per nulla penetrare nell'involucro.
5Protetto contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 1,0 mm e protetto contro la polverePer verificare l'accesso alle parti pericolose si utilizza il filo di prova con sezione di 1 mm che non deve penetrare nelle aperture e deve essere a distanza adeguata dalle parti pericolose.
Per verificare l'accesso dai corpi solidi di utilizza la camera della polvere in cui vi è la circolazione della polvere di talco mantenuta in sospensione tramite una pompa. Per gli involucri in categoria 1 è necessario collegare l'involucro del dispositivo alla pompa a vuoto.

E' permesso che penetri una limitata quantità di polvere in condizioni specificate. L'eventuale accumulo di polvere non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
6Protetto contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 1,0 mm e protetto totalmente contro la polverePer verificare l'accesso alle parti pericolose si utilizza il filo di prova con sezione di 1 mm che non deve penetrare nelle aperture e deve essere a distanza adeguata dalle parti pericolose. Per verificare l'accesso dei corpi solidi si utilizza la camera della polvere in cui vi è la circolazione della polvere di talco mantenuta in sospensione tramite una pompa. Per gli involucri in categoria 1 (vedi paragrafo successivo) è necessario collegare l'involucro alla pompa a vuoto.

Non è permesso alcun deposito di polvere all'interno dell'involucro.
Seconda cifra caratteristica
(livello di protezione dalla penetrazione di acqua con effetti dannosi)
0Non protettoNessuna prova.
1Protetto contro la caduta verticale di gocce d'acquaIl dispositivo viene posto all'interno di una vasca di gocciolamento su un tavolo che ruota ad una velocità di 1 giro/min. L'acqua viene fatta gocciolare con una portata di 1 mm / minuto per 10 minuti.
L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
2Protetto contro la caduta verticale di gocce d'acqua con involucro inclinato verso l'alto di 15°Il dispositivo viene posto all'interno di una vasca di gocciolamento in quattro diverse posizioni con inclinazione di 15° su una tavola fissa non rotante. L'acqua viene fatta gocciolare con una portata di 3 mm / minuto per 2,5 minuti per ogni posizione quindi la prova dura in totale 10 minuti.
L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
3Protetto contro la pioggiaSono possibili due metodi di prova che consistono nell'utilizzare un tubo oscillante oppure un ugello di innaffiamento, in entrambi i casi garantendo un spruzzo a ± 60° dalla verticale. Nel caso si utilizzi un tubo oscillante la portata dell'acqua è pari a 0,07 l /min ± 5% per foro, moltiplicato per il numero di fori per una durata di . Mentre, nel caso si utilizzi l'ugello di innaffiamento la portata è di 10 l /min ± 5% per un tempo minimo di 5 minuti.

L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
4Protetto contro gli spruzzi d'acquaSono possibili due metodi di prova che consistono nell'utilizzare un tubo oscillante oppure un ugello di innaffiamento, in entrambi i casi garantendo un spruzzo a ± 180° dalla verticale. Nel caso si utilizzi un tubo oscillante la portata dell'acqua è pari a 0,07 l /min ± 5% per foro, moltiplicato per il numero di fori per una durata di . Mentre, nel caso si utilizzi l'ugello di innaffiamento la portata è di 10 l /min ± 5% per un tempo minimo di 5 minuti.

L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
5Protetto contro i getti d'acquaSi utilizza un ugello per getti d'acqua con portata pari a 12,5 l /min ± 5% per almeno 3 minuti.

L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
6Protetta contro i getti potenti di acquaSi utilizza un ugello per getti d'acqua con portata pari a 100 l /min ± 5% per almeno 3 minuti.

L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
7Protetto contro gli effetti dell'immersione temporaneaSi pone il dispositivo in una vasca. Il livello dell'acqua deve essere oltre i 15 cm rispetto alla parte più alta del dispositivo e oltre 1 metro per la parte inferiore del dispositivo. La durata della prova è di 30 minuti.

L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
8Protetto contro gli effetti dell'immersione continuaIl dispositivo viene posto all'interno di una vasca. Le modalità della prova dipendono da eventuali Norme di prodotto o da accordi tra fabbricante ed utilizzatore quindi, variano su specifica del richiedente.

L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
9Protetto contro getti d'acqua ad alta pressione e temperatura elevataSi utilizza un ugello per getti d'acqua con portata pari a 15 l /min ± 1% in grado di fornire una forza tra 0,9 e 1,2 Newton. La temperatura dell'acqua è pari a 80 ± 15 °C.

L'eventuale penetrazione di acqua non deve compromettere la sicurezza del dispositivo e non deve ridurre la resistenza alle correnti superficiali.
Lettera
addizionale
(opzionale)
AProtetto contro l’accesso con il dorso
della mano alle parti pericolose.
Stesse condizioni di prova di IP1X.
BProtetto contro l’accesso con il dito alle parti pericolose.Stesse condizioni di prova di IP2X.
CProtetto contro l’accesso con un attrezzo.Stesse condizioni di prova di IP3X.
DProtetto contro l’accesso con un filo. Stesse condizioni di prova di IP4X.

Esempi di Codice IP

A titolo di esempio nella tabella seguente vengono mostrati degli esempi di Codice IP ed il relativo significato.

Codice IPSignificato
IP2XL'involucro del dispositivo è protetto contro l'accesso del dito di prova. La protezione dell'involucro contro la penetrazione dell'acqua non è stata testata.
IP22L'involucro del dispositivo è protetto contro l'accesso del dito di prova e contro l'accesso di gocce di acqua deviate di 15°.
IP24L'involucro del dispositivo è protetto contro l'accesso del dito di prova e contro gli spruzzi di acqua.
IP44L'involucro del dispositivo è protetto contro l'ingresso di corpi solidi con diametro ≥ 1,0 mm e contro gli spruzzi di acqua.
IP55L'involucro del dispositivo è protetto contro l'ingresso della polvere e contro i getti di acqua.
IP65L'involucro del dispositivo è totalmente protetto contro l'ingresso della polvere e contro i getti di acqua.
IPX5/IPX7L'involucro presenta una doppia applicazione. L'involucro è protetto contro i getti d'acqua e l'immersione temporanea.

Strumentazione di laboratorio per le prove IP

Come abbiamo visto in questo articolo, indicare su un prodotto, il Codice IP significa aver svolto delle specifiche prove ed averle superate. Per svolgere queste prove occorre della strumentazione particolare.

Vediamo di seguito la principale attrezzatura utilizzata generalmente nell’esecuzione delle prove IP.

Sfera di prova

Sfera di prova

La sfera di prova è una sonda molto semplice costituita da una sfera rigida in materiale metallico utilizzata per verificare la protezione dell’involucro contro l’ingresso di corpi solidi. Il diametro della sfera varia a seconda del tipo di prova ovvero a seconda della cifra caratteristica da verificare. Per la prima cifra 1 (IP1X) la sezione è 50 mm mentre per la prima cifra 2 (IP2X) la sezione è 12,5 mm. Per questi tipi di prove la sfera è priva di impugnatura. Durante la prova si introduce la sfera in ogni apertura dell’involucro e si verifica che questa non la attraversi completamente.

Dito di prova articolato

Dito di prova articolato

Il dito di prova articolato è una sonda utilizzata per la verifica del grado di protezione IP2X oppure IPXXB per quanto riguarda la protezione dell’involucro contro l’accesso di persone a parti in tensione. Questa sonda è costituita da una parte adibita ad impugnatura ed una parte relativa alla sonda vera e propria. La parte nella zona dell’impugnatura è in materiale isolante ed ha una sezione maggiore rispetto al dito in modo da fungere da piastra di arresto. La parte che simula il dito è lunga 80 mm con sezione massima di 12 mm, è in materiale metallico e presenta delle giunzioni che permetto di simulare le falangi. Durante la prova si introduce la sonda in ogni apertura dell’involucro e si usano gli snodi delle articolazioni per verificare che la sonda non tocchi parti in tensione del dispositivo.

Asta e filo di prova

Asta / Filo di prova

L’asta di prova ed il filo di prova sono delle sonde utilizzate per la verifica della prima cifra caratteristica da 3 a 6. Sono costruttivamente simili in quanto sono costituite da una impugnatura in materiale isolante, una sfera in materiale isolante che fornisce la superficie d’arresto della sonda ma differiscono per la sezione della parte terminale. L’asta di prova presenta la parte terminale in acciaio con una sezione di 2,5 mm e viene utilizzata per le prove IP3X oppure IPXXC. Nel filo di prova la parte terminale è sempre in acciaio ma ha una sezione di 1 mm e viene utilizzata per le prove IP4X, IP5X, IP6X oppure IPXXD. L’asta o il filo, viene introdotto in tutte le aperture dell’involucro e non deve entrare in contatto con parti in tensione.

Camera della polvere

Camera della polvere

La camera della polvere è lo strumento che viene utilizzato per le prove IP5X ed IP6X per la verifica della protezione dell’involucro di un dispositivo contro la polvere. La polvere utilizzata nelle prove è una polvere di talco che viene mantenuta in circolo all’interno della camera tramite una apposita pompa. Le dimensioni della polvere di talco sono tali da permetterne il setaccio tramite maglia quadrata i cui fili hanno diametro nominale di di 50 μm e sono distanziati a 75 μm. La quantità di polvere utilizzata è pari a 2 kg per metro quadrato di camera.

Il dispositivo oggetto di prova viene posto all’interno della camera e, nel caso sia di categoria 1, viene creata all’interno del suo involucro una depressione. Successivamente la camera viene chiusa e viene attivata la pompa per il circolo della polvere di talco. Nel caso di dispositivi di categoria 1 la prova può durare 2 ore oppure 8 ore a seconda della portata e del volume di aria che si riesce ad aspirare dall’involucro in depressione. Per i dispositivi di categoria 2 la prova dura 8 ore.


Marchio UKCA

Dal primo gennaio 2021, in Gran Bretagna, il marchio UKCA ha sostituito il marchio CE. In seguito alla Brexit è quindi necessario indicare che un prodotto immesso sul mercato è conforme alla legislazione inglese e questo lo si dichiara apponendo il marchio UKCA. Tutti i prodotti che prima della Brexit potevano essere commercializzati in Gran Bretagna con il marchio CE adesso devono presentare il marchio UKCA. Il marchio UKCA riguarda quindi tutti quei prodotti che prima del 2021 erano soggetti alle Direttive ed ai Regolamenti Europei. In questo articolo andiamo a vedere in cosa consiste il marchio UKCA e come deve essere svolto il processo di certificazione per i prodotti immessi sul mercato del Regno Unito. Per evitare confusione è bene ricordare che, per Gran Bretagna (GB) si intende l’insieme di Inghilterra, Scozia e Galles mentre per Regno Unito si intende l’insieme di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord.

Attenzione! Il ministero del commercio ovvero il “Department for Business and Trade” ha annunciato, in data 01/08/2023, che la marcatura CE sarà riconosciuta a tempo indefinito dal 2024 in poi. Questo significa che la marcatura UKCA è su base volontaria e non ci sono obblighi di apposizione qualora il prodotto sia già marcato CE.

Cos’è il marchio UKCA

Il marchio UKCA è il marchio che è necessario applicare a tutti i prodotti immessi sul mercato del Regno Unito e che, prima del 2021, richiedevano il marchio CE. UKCA significa “United Kingdom Conformity Assessment”.

Il marchio UKCA indica la conformità del prodotto alla legislazione del Regno Unito che include quindi Inghilterra, Scozia e Galles. In Irlanda del Nord esiste attualmente un protocollo differente in quanto è possibile utilizzare il marchio CE nel caso di prodotti la cui conformità si attesta tramite autodichiarazione del fabbricante oppure viene attestata tramite un organismo notificato europeo oppure utilizzare il marchio CE UKNI per quei prodotti la cui conformità viene attestata tramite un organismo notificato con sede nel Regno Unito. Il marchio CE UKNI può essere utilizzato unicamente per i prodotti immessi nell’Irlanda del Nord e non ha validità in Europa.

Dal primo gennaio 2021 è quindi necessario che qualunque prodotto commercializzato sul mercato del Regno Unito rispetti la relativa legislazione del Regno Unito. Tuttavia, al momento, i requisiti essenziali e le norme necessarie per stabilire la conformità di un prodotto, rimangono le stesse tra Regno Unito ed Unione Europea e questo è valido sia per i prodotti che richiedono una autocertificazione di conformità sia quei prodotti che richiedono una valutazione di terza parte.

E’ possibile apporre sia il marchio CE sia il marchio UKCA su un prodotto finché tanto che questo prodotto rispetta le legislazioni applicabili per entrambi i mercati.

Quali categorie di prodotti richiedono il marchio UKCA

La marcatura UKCA è obbligatoria per chiunque metta sul mercato del Regno Unito un prodotto che rientri nelle seguenti categorie:

  • giocattoli
  • articoli pirotecnici
  • imbarcazioni da diporto e moto d’acqua
  • recipienti a pressione semplici
  • compatibilità elettromagnetica
  • strumenti per pesare a funzionamento non automatico
  • strumenti di misura
  • bottiglie contenitore di misurazione
  • ascensori
  • apparecchiature per atmosfere potenzialmente esplosive (UKEX)
  • apparecchiature radio
  • attrezzature a pressione
  • dispositivi di protezione individuale (DPI)
  • apparecchi a gas
  • macchinari
  • attrezzature per l’uso all’aperto
  • ecodesign
  • apparecchiature elettriche a bassa tensione
  • aerosol

Da notare che apparecchiature come l’aerosol, che prima richiedevano il marchio “inverted epsilon”, ora richiedono il marchio UKCA.

Altre categorie di prodotto che richiedono il marchio UKCA ma per cui si applicano regole particolari sono i seguenti:

Quando e come applicare il marchio UKCA

Fino alle ore 23:00 del 31 Dicembre 2024 è possibile immettere sul mercato prodotti con solo il marchio CE. Tutti i prodotti immessi sul mercato della Gran Bretagna entro il 31 Dicembre 2024 possono circolare finché raggiungono il cliente finale senza necessità di essere sottoposti a nuova marcatura. In maniera del tutto coerente, per tutti quei prodotti che sono stati certificati CE prima del 31 Dicembre 2024 non è richiesto che vengano nuovamente certificati per il marchio UKCA. Dall’1 gennaio 2024 è obbligatorio porre il marchio UKCA.

Fino alle ore 23:00 del 31 Dicembre 2027 è possibile apporre il marchio UKCA tramite etichetta (es. adesivo) oppure inserirlo nei documenti di accompagnamento del prodotto (es. manuale d’uso e manutenzione). Ciò è valido per le categorie di prodotti che ricadono nei seguenti ambiti:

  • giocattoli
  • articoli pirotecnici
  • imbarcazioni da diporto e moto d’acqua
  • recipienti a pressione semplici
  • compatibilità elettromagnetica
  • strumenti per pesare a funzionamento non automatico
  • strumenti di misura
  • bottiglie contenitore di misurazione
  • ascensori
  • apparecchiature per atmosfere potenzialmente esplosive
  • apparecchiature radio
  • attrezzature a pressione
  • dispositivi di protezione individuale (DPI)
  • apparecchi a gas
  • macchinari
  • attrezzature per l’uso all’aperto
  • ecodesign
  • apparecchiature elettriche a bassa tensione
  • aerosol

Talune apparecchiature che ricadono nelle seguenti categorie seguono indicazioni differenti ed è necessario fare riferimento alle singole legislazioni applicabili:

  • dispositivi medici
  • prodotti da costruzione
  • teleferiche
  • attrezzature a pressione trasportabili
  • sistemi aerei senza pilota
  • prodotti ferroviari
  • equipaggiamento marittimo

A partire dal 1 Gennaio 2028, il marchio UKCA deve essere obbligatoriamente posto sul prodotto stesso oppure sulla sua confezione in maniera visibile, leggibile ed indelebile. E’ necessario comunque fare sempre riferimento alle legislazioni applicabili per valutare se alcuni casi particolari permettono che il marchio venga posto sui documenti d’accompagnamento al prodotto.

Chi deve apporre il marchio UKCA

Il marchio UKCA deve essere posto sul prodotto dal fabbricante oppure dal legale rappresentante oppure da chi immette in commercio un prodotto a proprio marchio.

Il soggetto che pone il marchio UKCA sul prodotto è ritenuto pienamente responsabile della conformità del prodotto alle legislazioni applicabili valide nel Regno Unito.

In marchio UKCA sta ad indicare che il prodotto è totalmente conforme alle leggi applicabili e chi lo pone se ne assume la responsabilità.

Le responsabilità legate all’apposizione del marchio dipendono naturalmente dal ruolo che sia ha nel posizionare il prodotto sul mercato. Di seguito vediamo le responsabilità suddivise per categoria di operatore sulla base di come opera sul mercato ovvero chiariamo il ruolo del: fabbricante, dell’importatore, del legale rappresentante e del distributore.

Fabbricante

Il fabbricante è la persona o l’organizzazione che produce il prodotto e lo mette sul mercato a proprio nome. Chiunque metta in commercio un prodotto apponendovi il proprio logo oppure il proprio nome è a tutti gli effetti un fabbricante. Il ruolo del fabbricante è svincolato da chi opera effettivamente la produzione del prodotto. In tal senso, un importatore che commercializza un prodotto fabbricato in una nazione terza da una altra organizzazione ma apponendovi il proprio marchio, assume il ruolo di fabbricante.

Il fabbricante è responsabile della sicurezza del prodotto. Per esser certo che il prodotto messo in commercio sia sicuro, il fabbricante deve soddisfare tutti i requisiti di legge applicabili per quel prodotto. Quindi, in una prima fase il fabbricante deve analizzare quali legislazioni sono applicabili per quel prodotto, verificare che tutti i requisiti siano soddisfatti, successivamente redigere una dichiarazione di conformità e porre il marchio UKCA sul prodotto. Superati con successo queste fasi, il fabbricante può commercializzare il prodotto. A seconda della tipologia di prodotto la procedura di certificazione può essere più o meno complessa, basti pensare che, come avviene in Europa, taluni prodotti richiedono che la verifica della conformità venga effettuata tramite un organismo di terza parte (organismo notificato) mentre per altri prodotti più semplici (e soprattutto meno pericolosi per l’utilizzatore e per l’ambiente) è sufficiente una autocertificazione. Il fabbricante è responsabile per la custodia di tutta la documentazione tecnica per un periodo di almeno 10 anni dalla produzione dell’ultimo prodotto, è responsabile del mantenimento del livello di qualità del prodotto e che questo sia accompagnato da istruzioni chiare e facilmente leggibili ed in lingua inglese.

Importatore

L’importatore è la persona oppure l’organizzazione con sede nel Regno Unito che vende o distribuisce un prodotto che viene da fuori la Gran Bretagna. L’importatore ha la responsabilità di verificare il prodotto venduto sia conforme alle leggi applicabili prima di metterlo sul mercato. E’ obbligato inoltre a verificare che il fabbricante abbia redatto correttamente le istruzioni, abbia affisso le adeguate marcature e che il prodotto non presenti rischi. Nel caso l’importatore verifichi che il prodotto non rispetta la legislazione vigente non può metterlo sul mercato finché non ne abbia comprovato la conformità. Nel caso l’importatore riscontri una non conformità oppure un rischio quando il prodotto è stato già immesso sul mercato, allora è tenuto a ritirare tutti i prodotti, ad informare le autorità competenti ed a svolgere le dovute verifiche.

Tra gli obblighi dell’importatore vi è quello di indicare nell’etichettatura del prodotto il proprio nome, marchio ed indirizzo oltre a quello del fabbricante. L’importatore è responsabile che il trasporto e lo stoccaggio del prodotto siano adeguate a preservarne il funzionamento e a non compromettere la sicurezza e la qualità del prodotto.

L’importatore che commercializza il prodotto importato a proprio nome o con il proprio marchio assume a tutti gli effetti il ruolo del fabbricante ed i relativi obblighi.

Legale rappresentante

Il legale rappresentante è la persona oppure l’organizzazione che, su incarico del fabbricante, svolge delle mansioni specifiche in sua rappresentanza. Il legale rappresentante è un delegato del fabbricante con il quale è vincolato da un accordo scritto come, ad esempio, un contratto.

Quella del legale rappresentante è una figura che per la maggior parte delle tipologie di prodotti non è obbligatoria tranne per alcune come i dispositivi medici. E’ importante quindi fare molta attenzione a quanto viene specificato nelle legislazioni di prodotto applicabili. Le mansioni che vengono generalmente assegnate al legale rappresentante sono quelle di porre la corretta marcatura sul prodotto, redigere la dichiarazione di conformità UKCA e custodire la documentazione necessaria che potrebbe essere richiesta dalle autorità.

Il rappresentante legale deve avere sede e residenza nel Regno Unito e, generalmente, svolge un ruolo di rappresentanza e di interfaccia tra le autorità che vigilano sul mercato ed il fabbricante.

Distributore

Il distributore è una persona oppure una organizzazione che distribuisce un prodotto che si trova già nel Regno Unito. Prima di venderlo deve assicurarsi che il prodotto sia conforme alle norme applicabili e in caso contrario non metterlo sul mercato. Qualora il distributore verifichi la presenza di rischi deve segnalarlo alle autorità competenti. Il distributore è obbligato ad assicurarsi che le condizioni di trasporto e stoccaggio del prodotto non vadano ad intaccare la qualità e la sicurezza dello stesso.

Specifiche per il marchio UKCA

Il marchio UKCA deve essere come quello mostrato nella figura seguente.

Marchio UKCA – Proporzioni effettive

Le specifiche per il corretto utilizzo del marchio UKCA sono le seguenti:

  • le proporzioni delle dimensioni devono essere preservate pur mantenendo una altezza minima di 5mm
  • deve essere indelebile e facilmente leggibile
  • è possibile utilizzare altri colori purché non venga trascurata la leggibilità
  • può essere accompagnato da altri simboli (come quello CE) purché vengano preservati i requisiti di leggibilità

Dichiarazione di conformità

Una volta verificata la conformità del prodotto a tutte le norme applicabili e posto il marchio UKCA è necessario, prima di commercializzare il prodotto, redigere la dichiarazione di conformità UKCA. Sebbene non sia obbligatorio, è molto importante che la dichiarazione di conformità UKCA sia un documento distinto dalla dichiarazione di conformità UE e questo per facilitarne la leggibilità ed evitare potenziali problemi. La dichiarazione di conformità UKCA deve essere fornita alle autorità competenti su richiesta ed è un documento che certifica chi è il responsabile della commercializzazione e quindi della conformità del prodotto.

I contenuti della dichiarazione di conformità UKCA variano a seconda delle norme applicabili ma devono includere almeno le seguenti prescrizioni:

  • identificazione del responsabile della certificazione ovvero nome ed indirizzo del fabbricante e, se del caso, del legale rappresentante con sede in Gran Bretagna;
  • identificazione del prodotto ovvero indicazione del modello, del tipo e del numero di serie;
  • una frase dove si dichiara la piena responsabilità della conformità del prodotto;
  • identificazione dell’organismo notificato (nel caso di certificazione di terza parte obbligatoria);
  • elenco della legislazione cui il prodotto è conforme e le norme utilizzate per la presunzione di conformità;
  • nome e firma della persona autorizzata a firmare la dichiarazione a nome del fabbricante, oppure il legale rappresentante;
  • la data della dichiarazione di conformità UKCA.

Corrispondenza tra norme UE e norme UK

Essendo il marchio UKCA relativamente nuovo, può essere utile, sapersi orientare tra le norme, soprattutto se si ha già dimestichezza con le norme Europee. Nella tabella seguente sono mostrate, per le principali categorie di prodotto, la corrispondenza tra le legislazioni UE e quelle UK. Bisogna ricordarsi sempre che porre il marchio UKCA significa aver completato con successo il processo di certificazione e quindi aver applicato le legislazioni e le norme valide in UK.

Legislazione UELegislazione UK
Compatibilità Elettromagnetica (EMC) - Direttiva 2014/30/UEElectromagnetic Compatibility Regulations 2016
Bassa Tensione (LVD) - Direttiva 2014/35/UEElectrical Equipment (Safety) Regulations 2016
Macchine (MD) - Direttiva 2006/42/CESupply of Machinery (Safety) Regulations 2008
Rumore all'aperto (OND) - Direttiva 2000/14/CENoise Emission in the Environment by Equipment for use Outdoors Regulations 2001
Strumenti di misura - Directive 2014/32/EUMeasuring Instruments Regulations 2016
Apparecchiature per atmosfere esplosive (ATEX) - Direttiva 2014/34/UEEquipment and Protective Systems Intended for use in Potentially Explosive Atmospheres Regulations 2016
Ascensori - Direttiva 2014/33/UELifts Regulations 2016
Apparecchiature radio (RED) - Direttiva 2014/53/EURadio Equipment Regulations 2017
Apparecchiature a pressione (PED) - Directive 2014/68/EUPressure Equipment (Safety) Regulations 2016
Imbarcazione da diporto - Direttiva 2013/53/UERecreational Craft Regulations 2017
Apparecchi a gas (GAR) - Regolamento 2016/426/UERegulation 2016/426 on gas appliances as it applies in GB
Strumenti per pesare a funzionamento non automatico (NAWI) - Direttiva 2014/31/UENon-automatic Weighing Instruments Regulations 2016
Recipienti a pressione semplici (SPVD) - Direttiva 2014/29/UESimple Pressure Vessels (Safety) Regulations 2016
Sicurezza dei giocattoli - Direttiva 2009/48/CEToys (Safety) Regulations 2011
Dispositivi di protezione personale (PPE) - Regolamento 2016/425/UERegulation 2016/425 on personal protective equipment as it applies in GB
Ecodesign - Direttiva 2009/125/CEEcodesign for Energy-Related Products Regulations 2010


Diodo (Guida Pratica)

Il diodo è un componente elettrico passivo a due terminali che permette il flusso di corrente in una unica direzione. E’ un componente molto utilizzato in elettronica soprattutto con funzione di protezione di parti di circuiti. Esistono di vari tipologie per svariate applicazioni. Anche i diodi hanno avuto una evoluzione tecnologica che ha portato allo sviluppo di componenti diversi quali il triac ed il tiristore. In questo articolo potrai trovare una guida pratica che ti può essere utile nel capirne il funzionamento e come fare una scelta consapevole sul tipo di diodo da utilizzare nel tuo progetto o nel tuo lavoro.

Cos’è il diodo

Il diodo è un componente passivo, non lineare e polarizzato che, quando attivato, conduce corrente in una unica direzione agendo come un interruttore a senso unico.

Il diodo è un componente elettronico passivo, ovvero non richiede l’applicazione di un segnale di alimentazione oltre quello di ingresso. Il diodo è inoltre un componente non lineare, ciò significa che una variazione di tensione al suo ingresso non porta ad una variazione proporzionale di corrente. Il diodo presenta due terminali, detti elettrodi, che ne indicano la polarizzazione e sono l’anodo (ovvero il terminale positivo) e catodo (il terminale negativo). Quando sull’anodo è presente una tensione positiva che corrisponde alle caratteristiche di ampiezza del diodo, allora scorre corrente dall’anodo al catodo.

Come funziona un diodo?

Il funzionamento del diodo, idealmente, è paragonato a quello di una valvola idraulica di non ritorno, ovvero una valvola unidirezionale. Qualora venga applicata una certa tensione al catodo, e questa tensione ha le caratteristiche di ampiezza e polarità richieste, il diodo si comporta come un corto circuito permettendo il flusso di corrente dal polo positivo a quello negativo cioè dal catodo all’anodo.

Rappresentazione del diodo, la banda da un lato indica il catodo

Il funzionamento del diodo è tale che, se la tensione tra anodo e catodo è superiore al valore della tensione di soglia del diodo, allora il diodo conduce la corrente nella direzione della polarizzazione. In questo caso, se paragoniamo il diodo ad un interruttore, possiamo dire che, quando è applicata all’ingresso una tensione almeno pari a quella di soglia, l’interruttore si chiude. Se, quando il diodo è in conduzione, cioè ha al suo ingresso una tensione almeno pari a quella di soglia e quindi è attivo e conduce corrente, andiamo ad aumentare la tensione in ingresso, i valori di corrente in uscita non cambieranno. Se invece sul diodo è presente una tensione inferiore a quella di soglia, il diodo si comporta come un interruttore aperto e quindi non conduce. Quando la corrente scorre dall’anodo al catodo, si dice che il diodo è in polarizzazione diretta. Quando la tensione ai capi del diodo esprime una differenza di potenziale negativa, allora si dice che il diodo è in polarizzazione inversa.

Giunzione p-n

Questa caratteristica di funzionamento, nei diodi attuali, è realizzata tramite la cosiddetta giunzione p-n che si ottiene affiancando un semiconduttore drogato positivamente ad un semiconduttore drogato negativamente. In un diodo a giunzione p-n, quando in ingresso è presente una tensione superiore a quella di soglia, si ha un movimento di elettroni da una regione all’altra del semiconduttore che genera quindi un campo elettrico. Questo, semplificando, porta a due effetti. Da una parte, rende l’intero semiconduttore conduttivo, permettendo al diodo di agire come un interruttore chiuso, ed allo stesso tempo limita il flusso di corrente a valori pressoché costanti che dipendono dalle caratteristiche del semiconduttore. Quando invece, la tensione in ingresso è al di sotto dei valori di soglia, gli elettroni non hanno abbastanza energia per attraversare la barriera tra la parte drogata p e la parte drogata n del semiconduttore e quindi il diodo non conduce e si comporta come un interruttore aperto. Semiconduttore tipici in queste applicazioni sono il silicio ed il germanio.

A cosa serve il diodo?

Tutte le applicazioni di un diodo sfruttano le capacità di funzionamento dello stesso ovvero di comportarsi come un corto circuito solo per determinate caratteristiche della tensione in ingresso. Le applicazioni più frequenti sono quelle in cui si ha l’esigenza in un circuito di limitare i valori di corrente a valle del diodo oppure di avere una tensione in uscita con delle caratteristiche diverse da quelle in ingresso al componente. Di seguito sono presentate le principali applicazioni di un diodo.

Diodo raddrizzatore

Il diodo è spesso utilizzato come raddrizzatore di tensione. Per circuito raddrizzatore si intende un circuito che, quando all’ingresso è applicato un segnale alternato (come quello sinusoidale della tensione AC), in uscita fornisce un segnale unidirezionale, ovvero, sempre positivo (o sempre negativo a seconda dai casi).

Circuito raddrizzatore a semionda

Se poniamo un diodo in serie ad un circuito che ha come tensione di ingresso una tensione alternata sinusoidale, in uscita avremo una tensione con valori positivi o nulli. Per capire meglio questo aspetto osserviamo la figura seguente.

Circuito raddrizzatore ad una semionda

Nel circuito a sinistra abbiamo un diodo ed una resistenza. La resistenza rappresenta l’equivalente del carico resistivo del circuito a valle del diodo. Questo tipo di circuito è denominato circuito raddrizzatore a semionda. Quando una tensione alternata arriva in ingresso al diodo, questo, al superamento della tensione di soglia si attiva e permette il passaggio della tensione finché la tensione non arriva a valori al di sotto della soglia e quindi il diodo smette di condurre e si comporta come un “aperto”. Dalla figura a destra si può notare come la tensione in uscita al diodo cioè quella sulla resistenza “segue” quella in ingresso ma con un leggero ritardo quando la tensione in ingresso cresce e con un leggero anticipo quando la tensione in ingresso diminuisce e questo effetto è dovuto al fatto che l’attivazione e disattivazione del diodo è legata al raggiungimento di un determinato valore di soglia che dipende dalle caratteristiche costruttive del diodo. Quando la tensione in ingresso è al di sotto della soglia oppure negativa, il diodo non conduce e quindi la tensione in uscita è nulla. Si noti che nel grafico che mostra l’andamento della tensione, la tensione in uscita dal diodo è leggermente inferiore rispetto a quella in ingresso. Questo è un aspetto tipico dei diodi a giunzioni p-n che sono caratterizzati dall’introdurre una piccola caduta di tensione.

Circuito raddrizzatore con filtro capacitivo

Un’altra configurazione tipica del circuito raddrizzatore è quella che prevede la presenza di un condensatore verso terra. Vediamo la schematizzazione seguente.

Circuito raddrizzatore con filtro capacitivo

Nell’immagine di sinistra vediamo la rappresentazione del circuito chiamato raddrizzatore con filtro capacitivo. Il condensatore è posto in parallelo al carico resistivo del circuito a valle del diodo e che è rappresentato dalla resistenza. Quando la tensione sinusoidale in ingresso al diodo supera il valore di soglia, il diodo entra in conduzione e, contemporaneamente permette la carica del condensatore. Quando la tensione in ingresso diminuisce sino ad arrivare sotto soglia, il circuito a valle è alimentato dal condensatore finché questo non si scarica completamente. Perché questa configurazione sia utile è necessario che il condensatore abbia caratteristiche tali da scaricarsi più lentamente del tempo di discesa del segnale in ingresso. Quanto più lento è il condensatore a scaricarsi tanta minore sarà la caduta di tensione fino alla prossima semionda del segnale in ingresso. In generale, una certa caduta di tensione, entro piccoli valori è tollerabile ma, se è necessario ridurla, è sufficiente aumentare il valore del condensatore. Quello che si ottiene utilizzando un circuito raddrizzatore con filtro capacitivo è la possibilità di alimentare un circuito in continua utilizzando un segnale in alternata.

Ponte di Graetz

Il ponte di diodi, detto anche ponte di Graetz, serve a fornire in uscita una tensione positiva a doppia semionda ovvero con frequenza doppia rispetto al segnale in ingresso.

Vediamo di seguito la rappresentazione circuitale e l’andamento della tensione in uscita.

Ponte di diodi (Graetz) – rappresentazione circuitale

Il comportamento del ponte di Graetz è tale che, quando applichiamo un segnale alternato in ingresso, per ogni valore della sinusoide vi è sempre una coppia di diodi in conduzione che forniscono in uscita valori positivi del segnale in ingresso. Si noti infatti che le due coppie di diodi sono polarizzati in maniera opposta gli uni agli altri. Durante la semionda positiva del segnale di ingresso i diodi polarizzati positivamente entrano in conduzione e forniscono in uscita una semionda positiva che insegue quella in ingresso mentre l’altra coppia di diodi è interdetta. Invece, durante la semionda negativa del segnale di ingresso, solo i diodi in polarizzazione inversa sono in conduzione e forniscono in uscita una semionda positiva in uscita. Il risultato è un segnale a doppia semionda solo positiva. Si noti che la frequenza del segnale in uscita è doppia di quella del segnale in ingresso.

Diodo per dissipazione carichi induttivi (diodo snubber / flyback)

In particolari configurazioni, il diodo è posto in parallelo ad un carico induttivo. Questa configurazione è utile per proteggere un circuito da eventuali picchi di tensione che si possono verificarsi quando viene disattivato un carico induttivo importante come può essere la bobina di un relè oppure un motore. Una rappresentazione tipica è quella mostrata nella figura seguente.

Diodo di Flyback

Immaginiamo il caso tipico in cui il nostro circuito abbia un motore. Questo motore può essere rappresentato da una impedenza che ha una componente induttiva ed una componente resistiva. Quando si disattiva rapidamente il motore, ad esempio togliendo l’alimentazione che lo comanda, per effetto della parte induttiva che cerca di sostenere la corrente che lo attraversa, si creano dei picchi di tensione tali da poter danneggiare i circuiti di comando se non adeguatamente protetti. In questi casi interviene il diodo posto in parallelo al carico induttivo e con polarizzazione inversa rispetto al carico (detta configurazione del diodo in antiparallelo). Quando il carico induttivo è alimentato, il diodo non è attivo e quindi agisce come un circuito aperto. Quando il carico induttivo è disalimentato, il diodo entra in conduzione scaricando il picco di corrente sulla resistenza. Da notare che la resistenza rappresenta la somma delle componenti resistive parassite del carico induttivo, in questo esempio del motore.

Diodo di bypass

Una applicazione tipica del diodo nell’ambito delle installazioni fotovoltaiche è il cosiddetto diodo di bypass. Il diodo di bypass serve a proteggere i moduli fotovoltaici reindirizzando la corrente che potrebbe fluire quando il livello di tensione di un sotto-modulo è negativo. In questo caso il diodo è posto in antiparallelo al modulo cioè quando il modulo è attivo, il diodo non conduce. Nella figura seguente vediamo una semplificazione dello schema di configurazione.

Schema di collegamento diodo di by-pass in impianto fotovoltaico

Questa configurazione serve a proteggere i moduli fotovoltaici funzionanti dai danni che potrebbero verificarsi a causa di sovracorrenti generate da altri moduli fotovoltaici che sono guasti oppure parzialmente o totalmente coperti dall’esposizione solare.

Simbolo grafico del diodo

I principali simboli grafici utilizzati per indicare il diodo negli schemi elettrici, in base alla norma EN 60617 sono i seguenti.

Tipo di resistoreIEC 60617
Diodo a semiconduttore (simbolo generico)
Diodo ad emissione di luce (LED)
Diodo sensibile alla temperatura
Diodo varicap (varactor)
Diodo tunnel (Esaki)
Diodo Zener
Effetto Schottky

Da notare che la norma IEC 60617 non identifica esplicitamente il diodo Schottky, il cui simbolo si ottiene dalla combinazione del simbolo del diodo generico combinato con il simbolo relativo all’effetto Schottky e che risulta essere come mostrato di seguito.

Diodo Schottky simbolo

Tipi di diodo

Di seguito sono presentate i principali tipi di diodi a semiconduttore attualmente più diffusi.

Diodo ad emissione di luce (Diodo LED)

I diodi led, probabilmente tra i più famosi, sono dei diodi emettono luce quando sono in conduzione. Il funzionamento è quello classico del diodo a semiconduttore, ovvero quando la tensione in ingresso supera quella di soglia allora il diodo conduce ma la caratteristica del LED è che quando in conduzione emette luce ovvero rilascia energia sotto forma di fotoni. I LED sono, a livello funzionale, del tutto simili ai classici diodi a giunzione p-n. La particolarità costruttiva dei diodi LED è che sono realizzati tramite un sottile strato di materiale semiconduttore pesantemente drogato. A seconda del materiale utilizzato e dal livello di drogaggio, quando il LED è attraversato da una corrente nella direzione di conduzione, esso emette una luce ad una lunghezza d’onda che dipende dal materiale. Tipicamente si utilizzano leghe di alluminio per i LED di colore rosso, arancione o giallo mentre si utilizzano leghe di indio per i LED di colore verde, blu o bianco. I diversi colori corrispondono a diverse lunghezze d’onda della radiazione luminosa che può arrivare dallo spettro del visibile, emettendo quindi i colori che vediamo, fino ad anche l’infrarosso. Sono caratterizzati dall’avere bassi consumi ed essere abbastanza duraturi. Classiche applicazioni sono quelle come indicatori oppure all’interno di display a 7 segmenti ma anche nei classici telecomandi.

Diodo Zener

I diodi Zener sono diodi a semiconduttore realizzati tramite giunzione p-n pesantemente drogata e caratterizzati dal poter funzionare in regione di polarizzazione diretta ma anche in regione di polarizzazione inversa. Quando lavorano in regione inversa hanno un particolare comportamento ovvero, quando la tensione in ingresso raggiunge un determinato valore, denominato tensione di Zener, in uscita dal diodo si avrà una tensione pressoché costante. La tensione di Zener dipende dalle caratteristiche costruttive del diodo ed è anche funzione della temperatura di lavoro. Questa modalità di funzionamento è molto utilizzata in applicazione dove occorre avere un regolatore di tensione che sia stabile, oppure dei componenti che forniscano un valore di tensione che possa essere utilizzato da altri componenti come riferimento oppure può essere utile per la soppressione di picchi di tensione impulsivi (tensioni molto alte che si presentano in breve tempo, come quelle dei fulmini).

Diodo Schottky

I diodi Schottky sono simili ai diodi a giunzione p-n ma, al posto della regione di semiconduttore di tipo p, presentano un metallo, tipicamente alluminio oppure platino. Questa caratteristica dei diodi Schottky permette di avere una caduta di tensione molto più contenuta rispetto ai classici diodi p-n. Come conseguenza, questi diodi permettono di fornire una buona efficienza e di essere adatti a lavorare a frequenze molto alte poiché garantiscono elevate velocità di commutazione.

Diodo Varicap

Il diodo varicap, detto anche diodo varactor, è un tipo di diodo a giunzione p-n che lavora in polarizzazione inversa. A livello costruttivo è simile al diodo p-n ma le regioni di semiconduttore sono drogate in maniera tale da rendere importante l’azione del diodo come un condensatore variabile. Quando lavora in polarizzazione inversa, il diodo varicap, si comporta come un condensatore il cui valore di capacità è proporzionale alla tensione in ingresso. In particolare il varicap rappresenta un valore di capacità che è inversamente proporzionale alla radice della tensione in ingresso. Questa caratteristica dei varicap di agire come condensatori controllati in tensione li rende adatti ad applicazioni tra cui amplificatori parametrici, oscillatori controllati in tensione e, molto spesso, li troviamo nei circuiti di progetti che includono la radio frequenza.

Diodo tunnel

Il diodo tunnel, detto anche diodo Esaki, è un tipo di diodo in cui la giunzione p-n è pesantemente drogata con impurità. Questa caratteristica costruttiva permette di sfruttare l’effetto tunneling in base al quale all’aumentare della tensione in ingresso si sviluppa una resistenza negativa. In conseguenza di questo effetto, all’aumentare della tensione in ingresso, diminuisce la corrente in uscita. Questo tipo di diodo trova applicazione in tutte quei casi in cui si lavora con alte velocità di commutazione dei segnali come negli amplificatori oppure negli oscillatori.

Parametri del diodo

Sulla base della tipologia di diodo che si utilizza, è importante selezionare quello con i parametri tali da permetterci di ottenere le prestazioni attese. Vediamo di seguito i principali parametri che possiamo trovare nel datasheet di un diodo e che ci aiutano ad effettuare una scelta consapevole nella selezione di un diodo. Tutti i parametri hanno una certa dipendenza dalla temperatura, per questo nelle schede dati si trova un riferimento alla temperatura ambientale o temperatura di lavoro di 25°C.

Corrente diretta media (IF(AV))

La corrente diretta media (forward current) indica il massimo valore di corrente che in media il diodo può condurre quando è in conduzione diretta. E’ un parametro fondamentale nella scelta di un diodo in quanto, in maniera indiretta, ci da una informazione importante sul livello di calore che la giunzione p-n è in grado di sostenere.

Corrente diretta di picco (IFSM)

In maniera del tutto analoga alla corrente diretta media è possibile trovare nei datasheet anche il picco di corrente diretta che il diodo è in grado di sostenere quando in conduzione diretta e viene indicato con il simbolo IFSM. Questo valore fa riferimento al livello di corrente impulsiva ovvero una corrente con un valore molto alto ma di breve durata, tipicamente pochi millisecondi. Questo parametro ci da una indicazione di quanto il diodo sia in grado di sostenere eventuali disturbi che possono presentarsi sulla linea di alimentazione.

Corrente inversa (IR)

La corrente inversa (reverse current) è la massimo livello di corrente che può attraversare il diodo quando è attraversato dalla massima tensione inversa e viene indicata con il simbolo IR. Questo parametro ci da una misura di quanto il diodo sia buono a livello costruttivo. Nella realtà infatti il diodo permette il passaggio di corrente nel verso opposto, tuttavia i livelli di corrente sono molto bassi se confrontati con quelli che si possono avere in conduzione diretta. Questo parametro è utile nel caso utilizziamo il diodo per proteggere dei componenti posti a monte, che potrebbero essere sensibili a tali correnti.

Tensione diretta (VF)

La tensione diretta è il minimo valore di tensione che, se applicato al diodo in polarizzazione diretta, permette ad esso di condurre.

Tensione inversa (VR)

La tensione inversa viene indicata con il simbolo VR ed è il massimo valore di tensione continua che il diodo, quando in polarizzazione inversa, è in grado di sostenere. Tale parametro alle volte è anche indicato con il simbolo VDC.

Tensione inversa ripetitiva (VRRM)

La tensione inversa ripetitiva indica il massimo valore di tensione che il diodo, se in polarizzazione inversa, è in grado di sostenere quando sottoposto ad impulsi ripetitivi.

Temperatura della giunzione (TJ)

La temperatura della giunzione indica il valore massimo di temperatura espresso in gradi cui il diodo è in grado di lavorare correttamente. La miniaturizzazione dei componenti ha trovato un limite nella capacità del componente stesso di dissipare il calore. E’ fondamentale fare operare il diodo ad una temperatura lontana da quella di giunzione in maniera tale da preservarne il funzionamento e prolungarne la vita utile.


Cosa sono le norme armonizzate?

Le norme tecniche sono uno strumento molto importante nella progettazione e realizzazione di un dispositivo e più in generale di un prodotto ma possono riguardare anche servizi, processi, materiali etc. Le norme sono dei documenti che contengono delle specifiche dettagliate con riferimento ad un particolare prodotto / servizio / procedura. Un sottoinsieme delle norme tecniche è rappresentato dalle norme armonizzate che in ambito europeo rappresentano quelle norme tecniche approvate dalla Commissione Europea. In questo articolo andremo ad approfondire gli aspetti principali delle norme armonizzate per capire meglio a cosa servono e perché vengono utilizzate. Chiunque svolga una attività tecnica lavora prima o poi con le norme armonizzate. Possiamo avere a che fare con le norme armonizzate quando riceviamo delle specifiche da un cliente oppure quando consultiamo un documento di progettazione ma anche semplicemente osservando le etichette di alcuni prodotti. Insomma non c’è tecnico che non abbia a che fare con le norme armonizzate. Ma andiamo per gradi! Vediamo cosa sono le norme armonizzate e come si differenziano dalle altre norme e perché sono così utili.

Cosa sono le norme armonizzate?

Le norme armonizzate sono tutte quelle norme tecniche Europee sviluppate da una delle organizzazioni normative europea su mandato della commissione Europea. Per esser ritenute tali vengono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. Le norme armonizzate sono quindi delle leggi riconosciute all’interno della Unione Europea che servono per dimostrare la rispondenza di un prodotto o servizio alla legislazione Europea. Ognuna di queste norme si dice che è “armonizzata secondo” una particolare Direttiva / Regolamento. Ogni norma è quindi armonizzata almeno per una Direttiva / Regolamento ma può esserlo anche per più Direttive / Regolamenti. Un esempio tipico è la norma “EN 60204-1: Sicurezza del macchinario – Equipaggiamento elettrico delle macchine Parte 1: Regole generali” che è armonizzata sia per la Direttiva Macchine che per la Direttiva Bassa Tensione. Ovviamente è importante valutare correttamente che la norma armonizzata individuata sia idonea per il tipo di prodotto o servizio che si intende progettare o valutare. Per questo aspetto è importante valutare attentamente quanto riportato nel capitolo “Campo di applicazione” presente nella parte iniziale di ciascuna norma.

A cosa serve una norma armonizzata?

Le norme armonizzate rappresentano dei mezzi legislativi che gli operatori economici possono utilizzare per dimostrare la conformità di un prodotto o servizio alle Direttive / Regolamenti Europei. Sviluppare un prodotto o un servizio in conformità ad una norma armonizzata garantisce la presunzione di conformità ai requisiti essenziali della Direttiva / Regolamento applicabile. Per sapere quali requisiti essenziali sono coperti dalla norma occorre sfogliare la norma stessa sino all’allegato Z. Qui sarà indicato quali clausole della norma permettono il soddisfacimento di quali requisiti essenziali. Va da se che una singola norma non garantisce la conformità a tutti i requisiti essenziali quindi, nel processo di certificazione, è tipico fare riferimento a più norme armonizzate. Le norme armonizzate permettono, tra l’altro, ad un qualunque operatore economico nel mondo che vuol mettere un prodotto sul mercato europeo di avere uno strumento univoco per dimostrare che quel prodotto rispetta le leggi europee. Le norme armonizzate grazie in particolare alla loro connessione con i requisiti essenziali delle legislazioni tecniche europee, pur essendo su base volontaria rappresentano un contributo importante nella realizzazione del libero mercato europeo.

Chi scrive le norme armonizzate?

Le norme armonizzate sono scritte e redatte da una cosiddetta Organizzazione Normativa Europea su mandato dell’Unione Europea. Queste organizzazioni sono le seguenti tre:

  • CEN – Comitato Europeo di Normazione (Comité européen de normalisation)
  • CENELEC – Comitato Europeo di Normazione Elettrotecnica (Comité Européen de Normalisation Electrotechnique)
  • ETSI – Istituto Europeo per le norme di telecomunicazioni (European Telecommunications Standards Institute)
Logo degli organismi di normazione europei

Come si può intuire dal nome ETSI è l’organizzazione che si occupa delle norme inerenti le telecomunicazioni, CENELEC si occupa delle norme in ambito elettronico / elettrotecnico mentre CEN produce ed armonizza tutte quelle norme tecniche che non rientrano nei due gruppi precedenti e che possono essere prodotti, materiali, servizi e processi.

Il processo che porta alla pubblicazione di una norma tecnica armonizzata può essere riassunto come segue.

  1. La commissione europea pubblica sul “Programma di lavoro Annuale” un interesse di richiesta riguardo un aspetto normativo. Nulla di ufficiale si è ancora mosso e questo rappresenta semplicemente uno step iniziale non vincolante.
  2. Si apre una consultazione tra organismi normativi (CEN / CENELEC / ETSI) e gli stati membri dell’Unione sulla richiesta di normazione.
  3. Una volta finalizzata la richiesta questa viene sottoposta ufficialmente al giudizio degli stati membri che ne devono votare l’approvazione
  4. Nel caso in cui gli stati membri abbiano espresso un giudizio positivo, la Commissione Europea invia all’organismo normativo appropriato per accettazione.
  5. Ricevuta la richiesta, l’organismo ha 1 mese di tempo per accettare o rifiutare la richiesta.
  6. In caso di accettazione l’organismo normativo elabora una stesura della norma tecnica e, al termine della stessa, la sottopone al giudizio della commissione europea. L’organismo, prima di procedere, può eventualmente richiedere una nuova stesura della richiesta alla commissione.
  7. La commissione europea può chiedere modifiche alla norma, oppure rigettarla oppure approvarla e quindi pubblicarla nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (Official Journal of European Union).

Le norme armonizzate sono obbligatorie?

No, non è obbligatorio utilizzare norme armonizzate al fine di dimostrare una conformità. L’utilizzo di norme armonizzate è su base volontaria. Essendo lo scopo delle norme armonizzate quello di raccogliere le specifiche di progettazione minime sufficienti per garantire la conformità alle Direttive Europee è sempre possibile utilizzare altre norme anche non armonizzate. Nel caso si scelga di utilizzare norme non armonizzare è sempre buona prassi giustificare adeguatamente come queste sia adatte a quello specifico prodotto / servizio / processo e quali siano i requisiti essenziali che la norma in questione va a soddisfare.

Le norme armonizzate in breve

Le norme armonizzate sono degli strumenti da utilizzare su base volontaria e non obbligatoria utili per soddisfare alcuni dei requisiti essenziali relativi alla Direttiva / Regolamento applicabile a quel particolare Prodotto / Servizio / Processo. Ogni norma armonizzata permette di soddisfare uno o più requisiti essenziali. E’ sempre possibile e concesso l’utilizzo di norme non armonizzate.

Le caratteristiche delle norme armonizzate possono essere riassunte come segue:

  • permettono la conformità a dei specifici requisiti essenziali obbligatori descritti nelle Direttive o Regolamenti;
  • contengono un allegato Z con indicazione dei requisiti essenziali cui la norma permette la presunzione di conformità (allegato ZA se la norma è redatta da CEN oppure allegato ZZ se la norma è redatta da CENELEC);
  • una norma tecnica per essere definita armonizzata deve essere pubblicata sulla gazzetta ufficiale europea;
  • l’applicazione delle norme tecniche armonizzate è volontaria, ciò significa che è sempre possibile dimostrare la conformità ad un requisito essenziale in modi diversi dall’utilizzo delle norme armonizzate.

Quali sono gli organismi di normazione?

Le norme tecniche sono un grande strumento che permette di facilitare il dialogo tra operatori differenti in tutto il mondo e facilita la circolazione di merci e servizi. Ma chi scrive queste norme? cosa significano quelle lettere all’inizio di ogni norma? Se ti sei fatto queste domande e sei ancora un po’ confuso, non ti preoccupare, in questo articolo andremo a vedere quali sono gli organismi responsabili della redazione delle norme, quale la loro struttura, gerarchia e come le norme vengono recepite tra gli organismi. Il tutto con un occhio di riguardo per gli aspetti che riguardano la normazione tecnica in Europa. Vediamo di seguito quali sono i principali organismi di normazione e quale ruolo svolgono.

Organismi di normazione Internazionali

Le organizzazioni internazionali che si occupano di redige norme di interesse globale sono le seguenti 3:

  • ISO, International Organization for Standardization;
  • IEC, International Electrotechnical Commission;
  • ITU, International Telecommunication Union.

Questi organismi sviluppano norme di interesse per il mondo intero. Tali norme possono essere poi recepite localmente dai singoli stati. ISO, IEC ed ITU collaborano strettamente tra loro e tale partenership è stata anche formalmente siglata tramite l’accordo di cooperazione WSC (World Standard Cooperation) con finalità di promozione del recepimento e dello sviluppo normativo che veda il coinvolgimento più largo possibile globalmente. Tutti e tre questi organismi hanno sede a Ginevra, Svizzera.

Vediamo di seguito una breve descrizione dei citati organismi internazionali.

ISO – International Organization for Standardization

Marchi ISO registrati in Stati diversi

La “International Organization for Standardization” generalmente chiamata ISO è una organizzazione internazionale non-governativa ed indipendente. La segreteria centrale ha sede a Ginevra, in Svizzera, ed ha come membri oltre 160 Enti nazionali di normazione (167 membri ad oggi). Ogni nazione aderente a questa organizzazione partecipa con un singolo delegato il quale è rappresentante ISO per quello Stato. La storia di ISO inizia nel lontano 1946 con la partecipazione di 65 delegati provenienti da 25 Stati differenti sino ad arrivare ad oggi dove vede la partecipazione di 167 membri ognuno di uno Stato diverso ed il coinvolgimento di 810 comitati tecnici. ISO collabora strettamente con altri due organismi che agiscono in maniera analoga nell’ambito normativo ovvero IEC (International Electrotechnical Commission) ed ITU (International Telecommunication Union). Al fine di facilitare il dialogo tra le parti e promuovere la standardizzazione delle norme ISO riconosce le seguenti organizzazioni normative a copertura delle diverse aree del mondo:

  • ACCSQ – ASEAN Consultative Committee for Standards and Quality;
  • AIDMO – Arab Industrial Development and Mining Organization;
  • ARSO – African Regional Organization for Standardization;
  • CEN – European Committee for Standardization;
  • COPANT – Pan American Standard Commission;
  • EASC – Euro-Asian Council for Standardization, Metrology and Certification;
  • PASC – Pacific Area Standard Congress.

Come detto, ISO agisce come una rete globale di enti normativi nazionali e sovranazionali. Per l’Italia agisce come membro dell’ISO l’ente denominato UNI – Ente Italiano di Normazione che partecipa ad oltre 700 tavoli tecnici.

La struttura organizzativa di ISO è riassunta nella figura seguente.

Struttura organizzativa ISO

Infine una curiosità. ISO non è un acronimo bensì l’abbreviazione della parola greca “ἴσος” (pron. “isos”) che significa “uguale”.

IEC – International Electrotechnical Commission

Marchio IEC

La “Commissione elettrotecnica internazionale” nota come IEC è una organizzazione internazionale di carattere globale non-profit fondata nel 1904. Ogni nazione può partecipare come membro IEC solo attraverso un proprio comitato tecnico nazionale. Attualmente IEC racchiude e collega i referenti di 88 comitati tecnici nazionali in qualità di membri della commissione e, considerando gli affiliati non-membri, essa coinvolge oltre 170 nazioni. Il focus della commissione è essenzialmente legato alle infrastrutture ed ai prodotti elettrici e / o elettronici.

La struttura organizzativa di IEC è riassunta nella figura seguente.

Struttura organizzativa IEC

L’Italia, per tramite del CEI – Comitato Elettrotecnico Italiano, è coinvolta come membro dello IEC in 176 tavoli tecnici come partecipante ed in 15 come osservatore.

ITU – International Telecommunication Union

L’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni ovvero ITU è una agenzia delle Nazioni Unite specializzata nell’attività normativa relativa alle telecomunicazione e più in generale alla cosiddetta ICT (Information Communication Technology). ITU vede la partecipazione congiunta del settore pubblico e privato. Ad oggi sono membri di ITU ben 193 nazioni ed oltre 900 tra aziende, università, centri di ricerca ed istituzioni a carattere nazionale oppure internazionale.

La struttura organizzativa di IEC è riassunta nella figura seguente.

Struttura organizzativa ITU

L’Italia, come nazione, è uno dei membri di ITU ma è presente anche tramite le seguenti aziende:

  • Deloitte Risk Advisory S.r.l. (Milano);
  • FastWeb S.p.A. (Milano);
  • Intermatica S.p.A. (Roma);
  • Prysmian SpA, (Milano);
  • RAI – Radiotelevisione Italiana S.p.A. (Roma);
  • Rai Way S.p.A. (Roma);
  • STMicroelectronics S.p.A. (Agrate Brianza);
  • Telecom Italia S.p.A. (Roma);
  • Telespazio S.p.A. (Roma);
  • Wind Tre S.p.A. (Roma).

ITU svolge la propria attività nell’ambito di tre settori specifici che sono i seguenti:

  • Settore delle radio-comunicazioni (ITU-R) che si occupa anche della gestione internazionale delle radio-frequenze e delle orbite satellitari;
  • Settore normativo (ITU-T) su tantissimi aspetti legati all’Information Communication Technology tra cui, ad esempio, protocolli di comunicazione, di compressione audio o video, etc.
  • Settore dello sviluppo (ITU-D) con pubblicazioni ed iniziative per lo sviluppo attraverso l’utilizzo e la diffusione delle tecnologie digitali.

Organismi di normazione Europei

Lo sviluppo di norme tecniche in Europa è in carico alle seguenti 3 organizzazioni:

  • CEN – Comitato Europeo di Normazione (Comité européen de normalisation)
  • CENELEC – Comitato Europeo di Normazione Elettrotecnica (Comité Européen de Normalisation Electrotechnique)
  • ETSI – Istituto Europeo per le norme di telecomunicazioni (European Telecommunications Standards Institute)

Le norme tecniche europee sono redatte da uno di questi organismi su esplicita richiesta della Commissione Europea che a fine lavori valuta la norma redatta e se il risultato è positivo e rispondente alle richieste originali, la norma viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Europea e diviene quindi norma armonizzata. Sulla base delle propri ambiti di competenza, CEN, CENELEC e ETSI hanno nel tempo stretto collaborazioni con gli organismi di normazione internazionali ISO, IEC, ITU. Queste collaborazioni sono state formalizzate nei seguenti trattati:

  • Accordo di Vienna tra CEN ed ISO;
  • Accordo di Dresda tra CENELEC e IEC;
  • Protocollo di intesa tra ETSI ed ITU-T nel settore delle telecomunicazioni (MOU, Memorandum of Understanding);
  • Accordo tra ETSI ed ITU-R nel settore delle radio-comunicazioni.

CEN e CENELEC hanno sede a Bruxelles, Belgio mentre ETSI ha sede nel tecnopolo Sophia Antipolis, in Francia. Vediamo di seguito una breve descrizione dei citati organismi europei.

CEN – Comitato Europeo di Normazione

Il CEN è un organismo di normazione che mette in rete gli organismi nazionali di 34 nazioni europee tramite quasi 400 comitati tecnici. I principali settori di riferimento includono il settore edile, chimico, difesa e sicurezza, energia e servizi, sanità, elettrodomestici, macchinari, minerario e dei metalli, salute e sicurezza sul posto di lavoro, etichettatura.

Dal 1991 tramite l’Accordo di Vienna siglato tra CEN ed ISO è stata siglata ed ufficializzata una importante collaborazione tra questi due organismi con l’obiettivo di evitare la produzione di duplicati di norme e ridurre il tempo di redazione delle stesse e quindi rendere il lavoro di entrambi gli organismi più efficiente ed omogeneo.

CENELEC – Comitato Europeo di Normazione Elettrotecnica

Il CEN è un organismo di normazione che mette in rete gli organismi nazionali di 34 nazioni europee tramite oltre 70 comitati tecnici per tutti quelli aspetti e settori che ricadono genericamente nell’ambito elettrotecnico. Tra i settori di pertinenza di cui si occupa il CENELEC occorre menzionare: la compatibilità elettromagnetica, motori, trasformatori, batterie, cablaggio, apparecchiature elettriche / elettroniche / elettromeccaniche, dispositivi di illuminazione, dispositivi a bassa tensione, veicoli elettrici, ferroviario, fotovoltaico etc.

Nel 1996 CENELEC ha siglato un accordo di collaborazione con IEC denominato accordo di Dresda. Obiettivo della collaborazione è quello di formalizzare l’intesa tra i due organismi, evitare la produzione di duplicati ed efficientare il lavoro di sviluppo normativo. La collaborazione è stata rinnovata nel 2016 tramite l’accordo di Francoforte che si basa sugli stessi principi dell’accordo di Dresda ma introduce degli aspetti aggiuntivi atti a semplificare il processo di sviluppo e tracciabilità del sistema normativo.

ETSI – Istituto Europeo per le norme di telecomunicazioni

ETSI è una organizzazione non-profit europea con sede in Francia. Rappresenta un punto di riferimento e di confronto tecnico per oltre 900 membri da oltre 50 nazioni. Partecipano come membri di ETSI aziende di prodotto ma anche istituti di ricerca ed operatori di servizi di connessione e comunicazione. ETSI opera nell’ambito dell’Information Communication Technology ed in generale per tutto quello che riguarda le comunicazioni. I settori coinvolti sono quelli delle reti di comunicazione, la standardizzazione della trasmissione dati, i sistemi di comunicazione wireless, la sicurezza informatica, le tecnologie digitali per l’informatizzazione nell’ambito dei trasporti aerei / navali / ferroviari, l’interoperabilità tra dispositivi, firma digitale, etc.

ETSI è stata fondata nel 1988 ed è una delle organizzazioni normative europee con carattere più internazionale. L’Italia è coinvolta nell’organizzazione ETSI anche tramite diversi operatori che operano sul territorio nazionale nell’ambito dei settori interessati:

ANITEC-ASSINFORMApple Italia S.r.lAREA S.p.A.
Aruba PECBit4idCNIT
Ericsson Telecomunicazioni S.p.A.Fastweb S.p.A.FBK
FONDAZIONE LINKSHuawei Technologies ItaliaIDSGeo
InfoCert S.p.A.INRIMIntel Corporation Italia S.p.A.
Intesi Group S.p.A.IPS S.p.ALecit Consulting S.r.l
Leonardo S.p.A.Mangrovia SolutionsMinistero Sviluppo Economico
Newen S.r.lNokia ItalyNTH S.r.l
Polizia di StatoQUALCOMM Europe Inc. – ItalyRCS S.p.A
RFI S.p.A.Samsung Electronics Italia S.p.A.Sfera S.r.l
SIAE Microelettronica S.p.A.TELECOM ITALIA S.p.A.Telit Communications S.p.A.
UNIBOUninfoViasat Group
Vodafone Italia S.p.A.////

Organismi di normazione Italiani

Gli organismi di normazione in Italia sono due e rappresentano l’Italia nell’ambito degli organismi di normazione internazionali visti in precedenza.

Gli organismi di normazione nazionali italiani sono:

  • CEI – Comitato Elettrotecnico Italiano;
  • UNI – Ente Nazionale Italiano di Unificazione.

Entrambi gli organismi hanno la sede centrale a Milano.

CEI – Comitato Elettrotecnico Italiano

Il CEI è l’ente italiano di normazione per elettrotecnica, elettronica e telecomunicazioni. Fondata nel 1909 è una organizzazione non-profit che si occupa di recepire documenti normativi internazionali, sviluppare e divulgare norme tecniche, stabilire ed unificare la terminologia tecnica etc. I settori principali di competenza del CEI sono il settore elettrotecnico, elettronico e delle telecomunicazioni per materiali, apparecchi, macchine, impianti e processi. Il CEI rappresenta l’Italia come membro nelle organizzazioni di normazione europee quali il CENELEC ed internazionali quali IEC. Il CEI, assieme ad UNI ed ISCOM (ISCOM – Istituto Superiore delle Comunicazioni e delle Tecnologie dell’Informazione), ha inoltre stipulato un protocollo di intesa per creare una commissione congiunta di interfaccia con gli organismi ETSI ed UTI.

UNI – Ente Nazionale Italiano di Unificazione

UNI è stato fondato nel 1921 e svolge attività di recepimento di norme europee, sviluppo di nuove norme e divulgazione. I settori di competenza sono tutti quelli al di fuori degli ambiti elettrici, elettronici od elettrotecnici coperti dal CEI. UNI rappresenta l’Italia come membro nelle organizzazioni di normazione europee come il CEN ed internazionali come ISO. UNI assieme a CEI ed ISCOM rappresentano l’Italia negli organismi ETSI ed UTI.

Organismi di normazione nazionali nel mondo

Oltre ai sopra citati organismi di normazione italiani esistono ovviamente diversi organismi di normazione per ogni Stato suddivisi generalmente per settore. Nella tabella seguente sono mostrati alcuni degli organismi nazionali di alcuni stati nel mondo.

NazioneOrganizzazioneSigla
Arabia SauditaSaudi Standards, Metrology and Quality OrganizationSASO
ArgentinaInstituto Argentino de Normalización y CertificaciónIRAM
ArgentinaAsociación Electrotécnica ArgentinaAEA
BrasileBrazilian National Standards OrganizationABNT
BrasileComitê Brasileiro de Eletricidade, Eletrônica, Iluminação e TelecomunicaçõesCOBEI
CanadaStandards Council of CanadaSCC
CinaStandardization Administration of ChinaSAC
Corea del sudKorean Agency for Technology and StandardsKATS
Emirati ArabiMinistry of Industry and Advanced TechnologyMOIAT
FranciaAssociation Française de Normalisation, French Association for StandardizationAFNOR
GermaniaDeutsches Institut für NormungDIN
GermaniaDeutsche Kommission Elektrotechnik Elektronik Informationstechnik im DIN und VDEDKE
GiapponeJapanese Industrial Standards CommitteeJISC
IndiaBureau of Indian StandardsBIS
Regno UnitoBritish Standards InstitutionBSI
RussiaGosudarstvennyj StandartGOST
Stati UnitiAmerican National Standards InstituteANSI
TurchiaTurkish Standards InstitutionTSE

Organismi di normazione in breve

Esistono diversi organismi di normazione che si distinguono per il carattere nazionale, regionale oppure internazionale e per il settore di competenza. Tutti gli organismi collaborano per poter fornire norme tecniche che siano ampiamente riconosciute in modo da poter facilitare lo sviluppo dei singoli stati e delle nuove tecnologie. Nella figura seguente viene presentata una schematizzazione della struttura gerarchica tra organismi di normazione che va dall’internazionale, all’europeo sino al nazionale italiano.


Relè (Guida Pratica)

Il relè è un componente elettrico che agisce come un interruttore automatico azionato da un segnale di ingresso. Il relè più famoso è quello elettromagnetico che è anche il più utilizzato in applicazioni non specifiche ed è costituito da una bobina che, quando alimentata, muove dei contatti realizzando quindi la funzione di interruttore. Il segnale in ingresso non è necessariamente una tensione e può essere di vario tipo a seconda della tipologia di relè e quindi della sua applicazione.

In questo articolo vediamo cosa è un relè, a cosa serve, quali tipi di relè esistono e quali sono le specifiche tipiche di un relè.

Qual è la funzione di un relè?

Un relè serve ad aprire o chiudere un circuito. Il relè agisce come un interruttore azionato automaticamente per mezzo di un segnale, generalmente elettrico. Il relè è utilizzato per comandare porzioni di circuito ovvero per trasmettere oppure interrompere la propagazione del segnale elettrico verso i circuiti a valle dello stesso. La funzione di un relè è quindi molto semplice tuttavia, è un componente molto utilizzato e questo soprattutto grazie ad un aspetto particolare ovvero è azionabile tramite un piccolo segnale. Una piccola tensione / corrente in ingresso al relè può comandare il circuito in uscita che può gestire anche alti valori di tensione / corrente. Inoltre, il relè permette si separare galvanicamente il circuito di ingresso da quello di uscita permettendo una maggiore sicurezza e facilità di utilizzo. Una applicazione tipica del relè che sfrutta tutte queste funzionalità è quella in cui un dispositivo di logica comanda un relè che interrompe un circuito di potenza. In questo caso il dispositivo di logica, che tipicamente può gestire segnali rappresentati da piccole tensioni, sfrutta il relè per comandare la parte di potenza che non potrebbe comandare direttamente. Inoltre, date le caratteristiche del relè, la parte di logica è protetta dalla parte di potenza tramite l’isolamento galvanico offerto dal relè. In una tipica applicazione industriale l’apertura di un finecorsa comanda l’interruzione dell’alimentazione di un motore tramite un apposito relè.

Riassumendo, le caratteristiche principali e più comuni di impiego di un relè sono le seguenti:

  • comandare più uscite azionando un singolo ingresso;
  • ottenere una separazione tra il circuito di comando e quello di potenza;
  • ottenere una separazione tra circuiti in corrente continua e circuiti in corrente alternata;
  • gestione ritardata del segnale di commutazione in uscita.

Simbolo grafico del relè

All’interno degli schemi elettrici il relè è rappresentato tramite i seguenti simboli grafici.

Tipo di relèCEI 3-19
Relè
Relè con due avvolgimenti separati
Relè rapido
Relè ad aggancio meccanico
(relè passo-passo)
Relè termico
Relè magnetotermico
Relè elettronico
Relè di Buchholz

Quanti tipi di relè ci sono?

I relè vengono classificati sulla basi di diversi criteri tra i quali il principio di funzionamento, il tipo di grandezza fisica che ne genera l’attivazione oppure il valore di tale grandezza. Vediamo di seguito i principali tipi di relè, le loro caratteristiche ed in base a cosa vengono classificati.

Relè monostabile

I relè monostabili sono quei relè che necessitano di rimanere alimentati per conservare la posizione di lavoro. Facciamo un esempio. Consideriamo un relè che in condizione di riposo, ovvero senza che venga eccitato da una tensione in ingresso, presenta i contatti aperti. Applichiamo quindi una tensione in ingresso al relè, questa tensione andrà ad eccitare il relè ed i contatti si chiuderanno. Nel caso in cui il relè dell’esempio sia monostabile allora per mantenere i contatti chiusi occorre mantenere l’alimentazione cioè la tensione in ingresso. Quindi, i relè monostabili sono quei relè che mantengono la posizione di lavoro fintanto che sono alimentati. E’ sufficiente togliere l’alimentazione al relè perché questo torni nella posizione di riposo.

Relè bistabile

I relè bistabili sono quei relè che cambiano lo stato dei contatti ad ogni impulso di alimentazione mantenendo l’ultimo stato in assenza di alimentazione. In questo caso, quindi, non occorre mantenere il relè alimentato per preservarne lo stato bensì è sufficiente un impulso perché il relè vada nello stato desiderato. Facciamo un esempio. Consideriamo un relè che in condizione di riposo, ovvero non alimentato, presenta i contatti aperti. In questo caso è sufficiente un impulso sull’alimentazione per chiudere i contatti dopodiché il relè manterrà i contatti chiusi anche in assenza di alimentazione. Questi relè sono stabili sia in condizione di riposo che in condizione di lavoro e per questo vengono chiamati bistabili.

Relè passo-passo

Relè passo passo marca Finder modello 26.08

Un relè passo-passo è un tipo di relè bistabile ovvero mantiene la sua condizione di riposo oppure di lavoro senza essere alimentato mentre cambia la condizione ad ogni singolo impulso. Viene chiamato anche relè ad arpionismo per via del meccanismo di ritenuta ad “arpione” che permette il cambio di stato ed il mantenimento dello stesso ad ogni impulso che il relè riceve. Questo tipo di relè permette di variare tra più stati diversi a partire da tutte le combinazioni possibili di stato dei propri contatti, siano essi entrambi aperti, entrambi chiusi oppure uno dei due aperto e l’altro chiuso. Vediamo nelle immagini seguenti l’interno del relè Finder 26.08 per capirne meglio il funzionamento.

A titolo di esempio, osserviamo nell’interno del relè passo-passo della figura precedente la bobina che, quando alimentata per via del campo elettromagnetico generato, porta al movimento dell’azionatore che muove la rotella dentata spostando i contatti in una posizione diversa dalla precedente.

I relè passo-passo sono molto utilizzati negli impianti civili nella gestione dei punti di illuminazione cioè per comandare accensione / spegnimento di un punto luce da diverse posizioni.

Relè temporizzati

Relè temporizzato ABB CT-WBS

I relè temporizzati sono relè che mantengono la posizione di riposo / funzionamento ad un tempo ben definito. Questo tipo di relè vengono utilizzati nella maniera seguente. Impostando ad esempio un tempo di trenta secondi si comanda al relè di aprire o chiudere i contatti dopo trenta secondi dopo aver ricevuto il comando di attivazione che a seconda delle impostazioni può significare aver messo o tolto alimentazione al relè. In figura è mostrato il relè temporizzato della marca ABB modello CT-WBS con regolazione di tempo ed intervalli tramite vite regolabile.

Relè di massima / di minima / differenziali

Una altra classificazione dei relè è quella basata sul valore della grandezza controllata. In questo caso il comportamento del relè e quindi il suo cambiamento di stato dalla condizione di riposo a quella di lavoro avviene in funzione del valore di una grandezza. Nel caso dei relè di massima quando la grandezza supera un determinato valore si ha l’intervento del relè. Nei relè di minima questi intervengono quando la grandezza controllata è inferiore ad un determinato valore. Nei relè differenziali l’attivazione avviene in base alla differenza di valori in ingresso ed uscita di un altro dispositivo.

Relè elettromagnetico

Relè OEG SDT-SS-112DM

I relè elettromagnetici sono la tipologia più diffusa per via del costo contenuto, della buona affidabilità li rendono adatti ad un utilizzo generico.

Sono caratterizzati dalla presenza di una bobina ovvero un solenoide in prossimità del quale è presente una ancora collegata ad un contatto mobile. L’ancora dispone di un sistema di ritenuta come ad esempio una molla che mantiene il contatto in una posizione di riposo.

Relè OEG SDT-SS-112DM privo di involucro

La schematizzazione seguente può aiutarci a capire più facilmente il principio di funzionamento di questo tipo di relè. Innanzitutto quello che vediamo nella figura seguente è un relè molto semplice, un relè elettromagnetico con un unico contatto in uscita. La bobina presenta dei contatti attraverso cui viene alimentata. Quando viene alimentata, è percorsa da corrente ed il comportamento è quello di un elettromagnete. Al crescere della corrente aumenta la forza magnetica che l’elettromagnete esercita sul nucleo mobile collegato alla molla. Oltre una certa soglia di corrente la forza magnetica riesce a contrastare e superare la forza meccanica della molla muovendo il contatto mobile. In questa situazione si dice che il relè è intervenuto e si trova nello stato di lavoro, come mostrato nella figura seguente a destra.

Principio di funzionamento di un relè elettromagnetico, a sinistra stato di riposo, a destra stato di lavoro

I relè elettromagnetici, come detto, sono molto diffusi in quanto robusti ed economici, hanno tuttavia delle limitazioni d’uso a seconda delle prestazione richieste nella modalità di utilizzo. Il punto più delicato di questi relè è sicuramente il contatto. L’attivazione del contatto richiede un certo tempo detto “tempo di attivazione” che dipende dalla natura meccanica del dispositivo. Un altro aspetto che a seconda delle applicazioni può risultarne sconveniente l’utilizzo è l’ingombro.

Relè elettronici

Relè MOSFET marca OMRON modello G3VM

I relè elettronici sono quei relè che non presentano un azionamento meccanico ovvero sono sprovvisti di contatti mobili ma utilizzano degli elementi a semiconduttore come i TRIAC oppure i transistori MOSFET. Nei relè elettronici tipicamente troviamo i seguenti componenti che sono il diodo led, il fotodiodo ed il transistor. Il principio di funzionamento, molto semplicemente, è il seguente: una tensione in ingresso eccita il led che così emette luce, questa luce viene ricevuta dal fotodiodo che la converte nella tensione che va sul gate del transistor permettendo a quest’ultimo di commutare.

Relè termico

Relè termico Schneider Electric modello LR2K0301

Nei relè termici l’apertura / chiusura dei contatti avviene dipendentemente dal valore di temperatura rilevato. I relè termici vengono generalmente utilizzati come dispositivi di protezione dal sovraccarico di circuiti elettrici oppure di motori. Il sovraccarico viene indirettamente riscontrato dalla temperatura dell’elemento termico posto nel relè. Prendiamo in considerazione a titolo d’esempio il funzionamento di un relè termico posto sulla linea di alimentazione di un motore. In condizioni normali, i livelli di assorbimento di corrente da parte del motore sono nei range di funzionamento e quindi anche la temperatura rilevata dall’elemento termico del relè è tale da non farlo intervenire. Nel caso di un sovraccarico, invece, il motore non solo andrà più lentamente ma comincerà ad assorbire più corrente portando anche ad un innalzamento della temperatura degli avvolgimenti del motore. In questa situazione entra in gioco il relè termico che, rilevando un eccessivo aumento di temperatura ,interviene e di conseguenza toglie alimentazione al motore. Ovviamente questo è un esempio molto semplice in quanto, a seconda dell’applicazione e del tipo di motore, può essere necessario un arresto controllato del motore invece di togliere direttamente l’alimentazione tramite il relè.

Esistono 3 tipi di relè termici a seconda del principio di funzionamento ovvero di come viene rilevata la corrente di assorbimento del motore e sono i relè termici bimetallici, i relè termici a lega fondibile, i relè termici elettronici. Vediamo di seguito le caratteristiche salienti di questi 3 tipi di relè termico.

Relè termico bimetallico

Il relè termico bimetallico di relè di protezione contro il sovraccarico agisce tramite l’utilizzo di una lamella bimetallica per ogni fase dell’alimentazione. Tali lamelle sono composte da due metalli diversi e sovrapposti che presentano un diverso coefficiente di dilatazione termica. Al variare della temperatura, la lamella si deforma andando ad agire su un meccanismo di sgancio dei contatti del relè.

Relè termico in lega fondibile

Nei relè termici in lega fondibile, la protezione contro il sovraccarico si realizzata tramite la presenza di un materiale come ad esempio una miscela eutettica che, in combinazione con un meccanismo di ritenuta, mantiene i contatti del relè in una determinata posizione. Un materiale eutettico è un insieme di metalli e leghe con una caratteristica particolare, ovvero quando arriva al punto di fusione passa pressoché istantaneamente dallo stato solido a quello liquido. Da qui si può capire il funzionamento del relè. Quando la temperatura dovuta al sovraccarico supera un certo livello l’eutettico liquefacendosi rilascia il contatto che così si apre. Questo tipo di relè, quando interviene, necessita di essere ripristinato manualmente.

Relè magnetotermico

Il relè magnetotermico è una combinazione di relè termico e relè elettromagnetico. Questo relè combina le caratteristiche di entrambi al fine di fornire una maggiore protezione del carico a valle del relè. La parte termica interviene per valori contenuti di corrente che generalmente sono nell’ordine di 5-10 volte la corrente nominale del circuito. La parte elettromagnetica del relè interviene in caso di corrente più elevate. Questo permette al relè magnetotermico di offrire protezione contro i sovraccarichi tramite la parte termica e protezione contro i cortocircuiti tramite la parte elettromagnetica. Occorre pensare anche al fatto che, nel caso di cortocircuito, la corrente non solo è elevata ma raggiunge valori importante molto rapidamente e il relè elettromagnetico è adatto ad intervenire velocemente.

Relè Buchholz

Il relè di Buchholz è un particolare dispositivo che viene utilizzato a protezione dei trasformatori raffreddati ad olio. Presenta una camera sigillata ermeticamente contenente due galleggianti e collegata da una parte alla camera del trasformatore e dall’altra al serbatoio dell’olio. In caso di malfunzionamenti nel trasformatore come ad esempio una scarica tra gli avvolgimenti o verso terra, si generano delle bolle di gas nell’olio. Nel caso le bolle di gas siano poche il primo galleggiante interviene ed apre il primo contatto mentre nel caso di una grande bolla di gas entrambi i galleggianti sono spinti verso il basso ed aprono entrambi i contatti del relè.

Relè di segnale

I relè di segnale sono dispositivi utilizzati tipicamente in sistemi elettronici e generalmente nella telecomunicazione ma anche negli strumenti di misura per la commutazione di segnali. Tipicamente utilizzati per pilotare carichi inferiori ai 2 Ampere si distinguono principalmente per la qualità alta dei contatti. L’elevato numero di commutazioni che devono sostenere fanno sì che l’affidabilità dei contatti di questi relè sia molto elevata.

Relè di potenza

I relè di potenza sono quei relè che sono in grado di lavorare a valori di tensione e corrente elevati. Particolarmente utilizzati in applicazioni industriali possono lavorare a tensioni anche di 600 Volt e sostenere una corrente di commutazione fino a 100 Ampere, tipicamente nelle macchine automatiche dell’industria un valore tipico è 20 Ampere.

Contattori

Un contattore è a livello costruttivo del tutto simile al relè ha infatti una bobina che quando eccitata apre o chiude dei contatti. I contattori dispongono inoltre di una alimentazione dedicata e di contatti ausiliari che si attivano in conseguenza dell’attivazione dei contatti principali. I contatti ausiliari possono avere diversi utilizzi come ad esempio il monitoraggio dello stato del relè da parte di un dispositivo di logica. La differenza principale rispetto ai relè è rappresentata dall’elevata capacità di commutazione. I contattori sono tipicamente utilizzati con funzione di interruttori diretto su motore.

Relè reed

I relè reed sono chiamati così perchè dispongono di una tipologia particolare di contatti, chiamata reed. Rappresentano una valida alternativa ai relè elettromeccanici qualora le correnti in gioco siano inferiori ad 1 Ampere. I relè reed presentano contatti a lamina in materiale ferromagnetico distanziati tra loro di poche decine di millimetri che si chiudono all’applicazione di un campo magnetico. Il vantaggio nell’utilizzo di un relè reed rispetto ai relè elettromeccanici consiste nel fatto che l’assenza di leve che muovono in contatti li rende più robusti e possono essere realizzati con un ingombro ridotto. Una limitazione nell’utilizzo di questi relè è legata ai bassi valori di corrente che sono in grado di gestire tipicamente inferiori ad 1 Ampere e che possono arrivare a massimo 3 Ampere.

Come si sceglie un relè?

Un relè si sceglie sulle base delle sue caratteristiche tecniche e costruttive e sulla base dell’applicazione in cui esso va inserito. Bisogna tener conto innanzitutto degli aspetti legati all’utilizzo come ad esempio la tensione di lavoro, la corrente nominale ma, a seconda dei casi, anche altri aspetti diventano importanti. Se per esempio non ho problemi di spazio potrò tranquillamente utilizzare dei relè elettromagnetici a bobina che sono ingombranti ma sono piuttosto economici; se ho bisogno di porre un relè su un motore potrei utilizzare un contattore che mi assicura robustezza dal punto di vista delle tensioni e correnti in gioco oltre ai contatti aggiuntivi che mi permettono di azionarlo da un dispositivo di comando; se invece ho carichi ridotti e devo ridurre l’ingombro potrebbe essermi utile un relè elettronico come quelli a stato solido. In generale, quando si sceglie un relè bisogna porre molta attenzione al tipo di carico che si trova a valle del relè ed in particolare ai carichi capacitivi (come motori sincroni, condensatori, correttori del fattore di potenza) ed induttivi (come motori asincroni, trasformatori, raddrizzatori). La chiusura dei contatti di un relè che pilota carichi capacitivi così come l’apertura dei contatti di un relè che pilota carichi induttivi può dar luogo ad importanti picchi di corrente o tensione che possono danneggiare lo stesso relè se non è adeguatamente dimensionato. Nel paragrafo successivo vediamo quali sono le tipiche specifiche di un relè in modo da avere una buona consapevolezza sulla scelta del relè.

Quali sono le specifiche elettriche dei relè?

I parametri caratteristici dei relè dipendono ovviamente dalla tipologia del relè ma possono possono essere raggruppati in specifiche generali, specifiche dei contatti e specifiche della bobina. Vediamo di seguito le caratteristiche principali.

Specifiche generali dei relè

  • Durata meccanica, spesso indicata come “mechanical life”. Indica il numero di cicli, ovvero di volte in cui il relè passa dalla condizione di riposo a quella di eccitazione o viceversa, che il relè è in grado di sostenere senza carico sui contatti prima che si danneggi.
  • Durata elettrica, anche chiamata “electrical life”. Indica il numero di cicli che il relè è in grado di sostenere prima di di danneggiarsi applicando un carico resistivo (o debolmente induttivo) ed applicando in ingresso una tensione pari a quella nominale
  • Temperatura di lavoro. E’ il valore della temperatura per cui è garantito il funzionamento corretto. E’ generalmente un range di temperature e, al di fuori di questo range, c’è un alto rischio di rottura del componente. La temperatura di lavoro è un parametro che può essere importante prendere in considerazione per i relè che si montano su schede PCB.
  • Rigidità dielettrica. Esprime il valore della tensione in alternata oppure impulsiva che il relè è in grado di sostenere senza subire danneggiamenti. La prova di rigidità dielettrica è tipica per componenti, prodotti elettrici / elettronici, macchine industriali, elettrodomestici, quadri elettrici etc etc e serve a verificare la tenuta degli isolamenti.
  • Grado di protezione IP. Espresso con un codice a 2 cifre di cui la prima cifra indica il grado di protezione alla penetrazioni di corpi solidi come le polveri e la seconda cifra indica il grado di protezione contro i liquidi. Più è alta la cifra, maggiore è la protezione che ha il componente. Per esempio il grado IP00 indica che non c’è alcuna protezione del componente a polvere ed acqua, IP22 indica che il componente ha protezione al contatto con il dito di prova (termine in cui in laboratorio viene simulato l’intervento di un dito) ed alla caduta verticale di acqua, IP66 indica che il componente ha una protezione completa alla polvere ed a getti di acqua in pressione. Per conoscenza, si consideri che oltre ad una cifra si può utilizzare la lettera “X” per indicare che non è noto il grado di protezione IP del componente (ad esempio IP2X, il componente è protetto dall’accesso al dito di prova ma non è nota la protezione contro i liquidi). I gradi di protezioni IP sono definiti dalla norma EN 60529.
  • Categoria di protezione ambientale. Indica il grado di protezione del relè ed è espresso nelle categorie che vanno da RT 0 (zero), RT I, RT II, RT III, RT IV, RT V. Più è alta la categoria maggiore è la protezione ambientale del relè. RT 0 ad esempio indica un relè privo di coperchio, detto anche relè a cielo, mentre RT V indica un relè sigillato ermeticamente.
  • Resistenza alle vibrazioni. E’ espressa in g ed indica la massima accelerazione che il relè è in grado di sostenere in tutti e tre gli assi mantenendo il suo corretto funzionamento.

Specifiche dei contatti dei relè

  • Corrente nominale. E’ la massima corrente continua che il relè è in grado di sostenere senza danneggiarsi. E’ un parametro molto importante perché tanto più il relè viene fatto funzionare nell’intorno di questo valore tanto minore sarà la vita utile del componente. Bisogna tenere conto del fatto che il valore di corrente nominale è valido se il relè viene utilizzato nel range della temperatura di lavoro.
  • Tensione nominale. E’ la tensione del carico sui contatti che garantisce la tenuta dell’isolamento del relè
  • Capacità di rottura detto anche Potere di rottura. Rappresenta il valore massimo di corrente cui il relè è in grado di commutare in aperto senza che subisca danni dovuti all’insorgere di archi elettrici. E’ un valore che è riferito alla tensione in ingresso.
  • Carico minimo commutabile. Indica il minimo valore in potenza, tensione e corrente necessario al relè per commutare.
  • Carico nominale. E’ il valore massimo della potenza che il relè è in grado di sostenere senza rompersi quando ad esso è applicato un carico.

Specifiche delle bobine dei relè

  • Tensione di alimentazione nominale, detta anche tensione di lavoro. Può essere sia in continua che in alternata e rappresenta la tensione che è necessaria porre in ingresso al relè perché commuti. Nel caso in cui la tensione fornita al relè sia pari a quella nominale, il relè commuta. In generale, la tensione minima per eccitare il relè è pari al 70% del valore della tensione nominale. Operare nell’intorno della tensione nominale è importante per garantire che il relè mantenga integro l’isolamento e quindi non si guasti.
  • Tensione minima di funzionamento. Indica la minima tensione applicabile al relè perchè funzioni come previsto.
  • Tensione massima di funzionamento. Indica il valore massimo di tensione entro il quale è garantito il corretto funzionamento del relè.
  • Tensione di mantenimento. E’ il valore della tensione sulla bobina entro cui un relè eccitato mantiene il proprio stato.
  • Tensione di rilascio. E’ il valore della tensione sulla bobina a cui un relè eccitato cambia il proprio stato.
  • Resistenza della bobina. E’ il valore della resistenza dell’avvolgimento della bobina.

Modi di guasto dei relè

Il relè ha due modi di guasto che sono: “bloccato aperto” e “bloccato chiuso”. Nel primo caso, ovvero “bloccato aperto”, indipendentemente dal segnale in ingresso, il relè non commuta e rimane nella posizione di aperto mentre nel secondo caso, “bloccato chiuso”, si ha che qualsiasi segnale il relè riceva, sia esso “alto” o “basso”, il relè rimane con i contatti chiusi.

I relè sono i componenti che più spesso si guastano nei circuiti e questo per via della presenza di elementi meccanici mobili che sono facilmente soggetti ad usura nel tempo (ovviamente questo discorso non vale per i relè elettronici come quelli a stato solido!). Vediamo quali sono le cause tipiche di guasto per le categorie principali di relè.

Cause di guasto di un relè elettromagnetico

Nei relè elettromagnetico gli aspetti più delicati sono:

  1. la tenuta dell’isolamento della bobina che si può deteriorare nel caso di particolari condizioni ambientali (come ad esempio la presenza di polvere oppure umidità oppure, in generale, corrosione) oppure nel caso di utilizzo del relè a tensioni superiori la tensione nominale di lavoro;
  2. il deterioramento dei contatti che può succedere quando i contatti sono sporchi oppure ossidati generalmente a causa delle condizioni ambientali di utilizzo oppure quando i contatti sono incollati cioè quando, a causa di archi elettrici tra i contatti questi si sono fusi assieme e quindi, il relè non ritorna più nella posizione di contatti aperti. Il deterioramento dei contatti è tipico quando il relè è utilizzato fuori specifica.

Cause di guasto di un relè elettronico

Nei relè elettronici non hanno né bobina né elementi mobili e quindi sotto l’aspetto della resistenza meccanica risultano più robusti tuttavia soffrono gli stessi aspetti di tutti i componenti elettronici quali, ad esempio, l’eccessiva temperatura, picchi di tensione o disturbi elettromagnetici.

Cause di guasto dei contattori

I contattori tipicamente pilotano dei carichi importanti e gli aspetti che ne precludono il funzionamento corretto sono:

  • i picchi di tensione dovuti ad un utilizzo del contattore fuori specifica oppure perché, in fase di progetto, non si è tenuto conto dei picchi di corrente o tensione dovuti all’inserzione di carichi induttivi o capacitivi
  • condizioni ambientali che portano ad deterioramento del componente quali temperature eccessive oppure corrosione.

Il relè in breve

Il relè è un componente che agisce come un interruttore quando in ingresso viene applicato un certo valore di tensione. Il relè permette di aprire o chiudere la parte di circuito a valle dello stesso e viene utilizzato per molteplici applicazioni come la gestione di comandi di accensione / spegnimento luci in ambienti residenziali; la separazione galvanica tra circuiti di comando a tensioni basse e circuiti di potenza a tensioni maggiori oppure la gestione dell’azionamento di motori.


Lavori su impianti elettrici a bassa tensione – PES PAV PEC (CEI 11-27)

La norma CEI 11-27 definisce tutte le prescrizioni minime di sicurezza per svolgere lavori su impianti elettrici. E’ una norma italiana, basata sulla norma internazionale EN 50110-1 e che tiene conto di quanto introdotto con il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, decreto legge 81/2008. La norma è rivolta a chiunque svolga lavori in prossimità di impianti elettrici ovvero è destinata a tutti quei lavoratori che, indipendentemente dalle proprie mansioni, sono esposti al rischio elettrico. La norma mette in correlazione la zona di lavoro con il rischio elettrico. Vengono definite diverse qualifiche a seconda della distanza dalla zona ad alto rischio elettrico con cui ci si trova a lavorare. Il datore di lavoro ha la responsabilità di considerare il rischio elettrico e di nominare ufficialmente quei lavoratori che, avendo adeguata qualifica, sono riconosciuti idonei e sono autorizzati a svolgere mansioni in prossimità oppure in presenza di parti in tensione.

In questo articolo vedremo quanto è previsto dalla legge italiana per poter lavorare in presenza di un rischio elettrico. Le considerazioni e prescrizioni che verranno presentate, oltre ad essere obbligatorie per legge, sono utili anche per tutti coloro che si ritrovano a maneggiare dispositivi in tensione per poter avere maggiore consapevolezza dei potenziali pericoli elettrici.

Norme di riferimento nei lavori con rischio elettrico

In Italia le disposizioni legislative necessarie per gestire la presenza di rischio elettrico in ambito lavorativo sono le seguenti:

  • Decreto legge 81/2008, “Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”;

Il decreto legge 81/2008 al Titolo III, Capo III, stabilisce che è responsabilità del datore di lavoro salvaguardare il lavoratore dai rischi di natura elettrica svolgendo una adeguata valutazione dei rischi che tenga conto delle specificità del lavoro.

  • CEI 11-27, “Lavori su impianti elettrici”;

La norma italiana CEI 11-27 raccoglie tutte le prescrizioni di sicurezza e le procedure per chi svolge lavori elettrici oppure lavora in prossimità di parti attive. E’ basata sulla norma internazionale EN 50110-1 di cui ha la stessa struttura ed integra alcuni concetti del d. lgs. 81/2008. Fa riferimento ai lavori sotto tensioni su impianti fino a 1000 V in corrente alternata e 1500 V in corrente continua ovvero sistemi elettrici in categoria 0 oppure categoria I.

  • CEI 11-15, “Esecuzione di lavori sotto tensione su impianti elettrici di Categoria II e III in corrente alternata”;

La norma italiana CEI 11-15 regolamenta tutte le disposizioni di legge per operare su impianti di categoria II o III ovvero impianti con tensione superiore a 1000 V in corrente alternata e superiore a 1500 V in corrente continua. Oltre a quanto indicato nel d. lgs. 81/2008, in questo caso bisogna fare riferimento anche al decreto ministeriale del 4 febbraio 2011 che definisce i criteri per il rilascio delle autorizzazioni a svolgere questi lavori.

  • EN 50110-1, “Esercizio degli impianti elettrici Parte 1: Prescrizioni generali”.

La norma EN 50110-1 è la norma tecnica internazionale che definisce le regole da utilizzare nell’esecuzione di lavori in zone dove è presente tensione. E’ stata recepita in Italia e, assieme alle norme CEI 11-27 ed CEI 11-25, completa il quadro normativo per lo svolgimento di lavori in presenza di rischi elettrici.

Zone di lavoro per la valutazione del rischio elettrico

Al fine di definire i principi di sicurezza e le procedure necessarie per svolgere i lavori elettrici su impianti a bassa tensione si definiscono varie zone di lavoro sulla base della loro distanza dalle parti attive.

Nella figura seguente viene presentata la schematizzazione delle zone di lavoro così come definite dalla norma.

Si può notare come l’area più vicina alle parti attive è quella chiamata di “lavoro elettrico”. In questa area si svolgono tutti quei lavori che effettivamente si svolgono sull’impianto elettrico considerato.

L’area di lavoro elettrico comprende:

  • zona di lavoro sotto tensione, quando la distanza dalla parte attiva è al massimo pari a DL;
  • zona di lavoro in prossimità, quando la distanza dalla parte attiva è superiore a DL ma al massimo pari a DV.

Allontanandosi dalle parti attive si ha la cosiddetta area di “lavoro non elettrico” che permette di considerare tutti quei lavori che non necessariamente sono elettrici ma si svolgono comunque in un’area di lavoro dove è presente il rischio elettrico come le pulizie la produzione o altra manutenzione non necessariamente sullo stesso macchinario.

La zona di lavoro non elettrico comprende:

  • zona di lavoro non elettrico, ad una distanza dalle parti attive che è superiore a DV ma inferiore a DA9;
  • zona di lavoro con rischio elettrico non significativo, ad una distanza almeno pari a DA9.

I valori dei parametri DL, DV e DA9 sono definiti dalla norma CEI 11-27 e dipendono dalla tensione nominale dell’impianto elettrico in prossimità del quale si opera. Nella tabella seguente sono riportati i valori delle distanze in funzione della tensione nominale del sistema.

Tensione nominale del sistema
[kV]
Limite zona dei lavori sotto tensione
DL [mm]
Limite zona di prossimità DV [mm]Limite per i lavori non elettrici DA9 [mm]
≤1nessun contatto3003000
36011203500
69011203500
1012011503500
1516011603500
2022012203500
3032013203500
3638013805000
4548014805000
6063016305000
7075017505000
110100020005000
132110030005000
150120030007000
220160030007000
275190040007000
380250040007000
48032006100//
70053008400//

Si noti che, come detto in precedenza, la norma CEI 11-27 si basa sulla norma EN 50110-1 e, a partire da quest’ultima, include ulteriori prescrizioni nazionali come in questo caso il parametro DA9 che è stato introdotto dal decreto 81/2008.

Profilo professionale degli operatori – PES PAV PEC

Sulla base delle responsabilità e delle mansioni che devono svolgere distinguiamo tre profili di operatore.

  1. Persona esperta in ambito elettrico (PES): Persona con istruzione, conoscenza ed esperienza rilevanti tali da consentirle di analizzare rischi e di evitare i pericoli che l’elettricità può creare;
  2. Persona Avvertita in ambito elettrico (PAV): Persona adeguatamente avvisata da persone esperte per metterla in grado di evitare i pericoli che l’elettricità può creare;
  3. Persona Comune (PEC): Persona che non è esperta e non è avvertita.

La condizione di PES oppure PAV, nel caso dei lavoratori dipendenti, deve essere attribuita dal datore di lavoro che deve anche formalizzare la tipologia di lavori che si possono svolgere. Se il datore di lavoro ritiene che i dipendenti non dispongano di adeguata formazione teorica, la condizione di PES o PAV potrà essere attribuita solo dopo un corso di formazione teorica. La condizione di PES o PAV può essere revocata dal datore di lavoro qualora vengano a mancare i requisiti minimi.

Per un lavoratore autonomo oppure per lo stesso datore di lavoro, qualora un committente richieda la condizione di PES o PAV, è sufficiente una autocertificazione. Questa autocertificazione dovrebbe basarsi su della documentazione attestante la conoscenza teorica-pratico-legislativa, eventuali corsi di formazione, descrizione dei lavori svolti e tipologia di impianti.

Requisiti di conoscenza minima per il profili PES, PAV, PAC

I profili professionali dell’operatore PES, PAV, PEC dipendono dal soddisfacimento di 3 requisiti mostrati di seguito.

  1. conoscenza tecnica nell’ambito degli impianti elettrici, delle relative norme di sicurezza e l’abilità di riconoscere rischi e pericoli dei lavori elettrici;
  2. esperienza di lavoro maturata, che permette di riconoscere le situazioni tipiche ed anomale nelle varie tipologie di lavori;
  3. caratteristiche personali ovvero tutto ciò che permette di ritenere l’operatore affidabile come la capacità di svolgere il lavoro con professionalità, equilibrio, attenzione, precisione.

Il profilo PES richiede che tutti e tre i requisiti siano ampiamente coperti.

Il profilo PAV richiede che i requisiti siano non completamente soddisfatti ma che comunque vi sia una conoscenza di base nei vari aspetti. Tipicamente, il profilo del PAV, con l’accrescere delle conoscenze e con l’esperienza sul lavoro, si evolve per diventare PES.

Il profilo PEC è quello di un operatore il cui profilo non soddisfa nessuno dei tre requisiti. Diversamente da quanto avviene per i profili PES e PAV, il profilo PAC non richiede di essere assegnato.

Per quanto riguarda i profili PES e PAV, qualora il personale non abbia i tre requisiti descritti, deve avere una formazione adeguata.

Requisiti di formazione minima per PES e PAV

La norma CEI 11-27, distingue quattro diversi livelli di formazione richiesti per i profili PES e PAV. Questi livelli sono: 1A, 1B, 2A e 2B.

I livelli 1A e 1B indentificano le conoscenze minime richieste per i profili PES e PAV che lavorano su macchinari oppure impianti su cui si può operare senza che questi siano alimentati ovvero in assenza di tensione. Se, invece, si effettuano lavori in presenza di tensione su impianti a Bassa Tensione ovvero in categoria 0 oppure categoria 1, è necessario aver acquisito anche le conoscenze dei livelli 2A e 2B.

Per tutti i livelli è sempre necessario e previsto che vi sia la conoscenza oltre che di aspetti generali legati all’elettrotecnica, anche di tutti quegli aspetti specifici legati alla tipologia di lavoro da svolgere e alle procedure di lavoro stabilite dall’azienda.

La modalità di formazione prevista è lezioni frontali o da remoto per gli aspetti teorici e simulazioni, affiancamento o altro per gli aspetti operativi.

Per essere valida, la formazione deve essere documentata e l’avvenuto apprendimento deve essere verificato tramite apposite valutazioni.

La durata della formazione dipende dal livello di istruzione e di esperienza di chi riceve il corso, ma anche dalla complessità del lavoro da svolgere. Il datore di lavoro che richiede la formazione deve comunicare a chi tiene il corso la complessità del lavoro atteso in modo che la complessità del corso sia adeguatamente modulata. La durata minima per la formazione di Livello 1A dovrebbe essere di almeno 10 ore. La durata minima per la formazione di Livello 2A è di 4 ore.

La formazione deve essere aggiornata entro massimo 5 anni e tale aggiornamento deve avere una durata non inferiore a 4 ore.

Livello 1A – Conoscenze teoriche

Il livello 1A prevede la conoscenza dei seguenti aspetti teorici:

  • conoscenza del Decreto Legge 81/2008 con particolar riguardo agli aspetti legati alla sicurezza elettrica;
  • conoscenza delle prescrizioni di CEI EN 50110-1 e CEI 11-27;
  • conoscenza delle prescrizioni di base di CEI EN 61936-1 (CEI 99-2) e CEI EN 50522 (CEI 99-3) per gli impianti a media ed alta tensione e CEI 64-8 per la progettazione, la realizzazione e la verifica di un impianto elettrico;
  • conoscenza dei rischi elettrici e degli effetti dell’elettricità sul corpo umano e relativo intervento di primo soccorso;
  • conoscenza delle modalità di utilizzo, verifica dei dispositivi di protezione individuale DPI;
  • conoscenza delle procedure operative per la preparazione ed esecuzione del lavoro e delle figure coinvolte come RI e PL.

Livello 1B – Conoscenze e capacità per l’operatività

Il livello 1B prevede la conoscenza dei seguenti aspetti pratici:

  • definire, circoscrivere e segnalare l’area di lavoro, valutando le distanze rilevanti per il lavoro ed i relativi pericoli connessi e ponendo adeguatamente eventuali protezioni;
  • mettere in blocco il macchinario;
  • messa a terra e cortocircuito;
  • valutare l’influenza delle condizioni ambientali sul lavoro da svolgere;
  • utilizzare i DPI e riconoscerne lo stato;
  • leggere e capire tutta la documentazione attinente il lavoro come ad esempio il Piano di Lavoro, i documenti di presa in consegna e restituzione di un impianto, le procedure operative aziendali etc.

Livello 2A – Conoscenze teoriche di base per lavori sotto tensione

Il livello 2A prevede la conoscenza dei seguenti aspetti teorici:

  • conoscenza delle prescrizioni relative ai lavori sotto tensione su impianti a Bassa Tensione delle norme CEI EN 50110-1, CEI EN 50110-2 e CEI 11-27;
  • conoscenza degli aspetti di sicurezza dei componenti su cui si lavora;
  • conoscenza dei DPI specifici per i lavori tensione;
  • conoscenza e capacità di prevenire i rischi;
  • conoscenza di quanto previsto dai ruoli ricoperti.

Livello 2B – Conoscenze pratiche sulle tecniche di lavoro sotto tensione

Il livello 2B prevede la conoscenza dei seguenti aspetti pratici specifici per l’attività da svolgere:

  • capacità di analisi del lavoro e confidenza nei vari step operativi richiesti;
  • scelta degli strumenti da utilizzare;
  • preparazione e definizione tanto del posto di lavoro quanto del cantiere;
  • utilizzo di protezioni adeguate al lavoro in tensione.

Inoltre con il livello 2B è previsto che vi sia anche capacità organizzativa ovvero:

  • saper organizzare il lavoro nelle sue fasi;
  • saper ricevere e trasmettere le informazioni relative al lavoro.

Profili professionali dei responsabili – URI RI URL PL

Oltre a PES, PEV, PAC occorre considerare altre figure professionali che hanno un ruolo di responsabilità nell’esecuzione dei lavori elettrici e nella relativa sicurezza. Tutte questi profili possono essere assegnati a persone diverse oppure una persona può avere diverse responsabilità a seconda di quanto si richieda dal datore di lavoro oppure dal committente. Queste figure sono identificate tramite i seguenti acronimi:

  • URI – Persona o Unità Responsabile dell’impianto elettrico;
  • RI – Persona designata alla conduzione dell’impianto elettrico;
  • URL – Persona o Unità Responsabile della realizzazione del lavoro;
  • PL – Persona preposta alla conduzione dell’attività lavorativa.

In strutture aziendali di piccole dimensioni, non è insolito che RI, URL e PL coincidano.

URI – Unità o Persona responsabile dell’impianto elettrico

L’URI tramite regole ed organizzazione aziendale garantisce ed è responsabile della sicurezza di un impianto elettrico. L’URI è la persona che si occupa di redigere il piano di manutenzione dell’impianto ed è responsabile del controllo degli accessi. L’URI non deve necessariamente essere PES. L’URI deve essere PES nel caso in cui questa figura coincida con il RI.

RI – Responsabile dell’Impianto per i lavori

RI è la persona responsabile della sicurezza dell’impianto durante qualsiasi intervento elettrico e non, svolto sull’impianto. Il responsabile dell’impianto, RI, ha un profilo PES. Il ruolo di RI viene assegnato dal URI all’esecuzione di un lavoro sull’impianto elettrico ad una persona interna oppure esterna alla propria Unità o Azienda. Nel caso l’URL assegni il ruolo di RI ad una persona esterna, come ad esempio un ditta di manutenzione, questa assegnazione deve essere formalizzata per iscritto tramite delega. Durante un lavoro l’RI è responsabile del controllo degli accessi.

Relativamente all’attività lavorativa da svolgere l’RI deve:

  • redigere il piano di lavoro;
  • condividere le scelte sull’attività da svolgere con l’URI e far dialogare i vari profili tra cui URI e PL;
  • mettere in sicurezza l’impianto prima dei lavori, eventualmente delegando (per iscritto) ad un profilo PES oppure PAV;
  • identificare, delimitare e segnalare la zona di lavoro e mantenerla in sicurezza per tutta la durata dei lavori;
  • autorizzare il PL ad iniziare i lavori e, a conclusione degli stessi, ristabilire le normali condizioni di funzionamento dell’impianto.

URL – Unità o persona responsabile della realizzazione del lavoro

URL ha la responsabilità di preparare ed eseguire il lavoro. Il profilo dell’URL deve necessariamente avere anche il profilo PES e PL. Le responsabilità dell’URL sono le seguenti:

  • assieme al RI definisce metodi ed organizzazione del lavoro da svolgere;
  • predispone, se necessario, un piano di intervento;
  • definisce i PL ed altri addetti e le relative mansioni sulla base di come è organizzato il lavoro;
  • verifica che, compatibilmente con lo svolgimento in sicurezza del lavoro, siano disponibili tutte le procedure, i mezzi di protezione individuale, attrezzature e che il personale coinvolto abbia adeguata formazione.

Generalmente per i lavori semplici, l’URL è anche il PL che svolge il lavoro. In caso contrario, l’URL deve condividere con il PL i dettagli del lavoro da eseguire per come è stato organizzato.

PL – Persona preposta alla conduzione dell’attività lavorativa

Il PL, ovvero il preposto a supervisionare il lavoro, è il responsabile sul posto di lavoro della conduzione operativa del lavoro. Il PL deve avere una adeguata esperienza nell’operare per il lavoro che è stato richiesto e deve essere un profilo PES. Solo in taluni casi ed unicamente sulla base del reale lavoro da svolgere, il PL può essere un PAV. Le responsabilità del PL sono le seguenti:

  • recepire e condividere il piano di intervento, verifica che quanto previsto dal piano sia stato attuato prima di iniziare i lavori e conduce i lavori in base allo stesso piano;
  • presenta lo scopo dell’intervento e descrive i compiti ai diversi operatori coinvolti;
  • controlla il comportamento professionale degli operatori in termini di utilizzo adeguato dell’attrezzatura, dei dispositivi di protezione individuale e rispetto delle procedure;
  • definisce inizio, durata, sospensione e termine dei lavori.


Valutazione del ciclo di vita (LCA) – ISO 14040 – ISO 14044

La valutazione del ciclo di vita (in inglese Life Cycle Assessment – LCA) è un metodo iterativo per la quantificazione degli impatti ambientali dovuti al ciclo di vita di un prodotto, di un servizio o di un processo. Tale analisi è volta a valutare le ricadute sull’ambiente che si possono avere dalla creazione, dall’utilizzo e dallo smaltimento di prodotti o servizi. Gli standard ISO 14040 ed ISO 14044 sono stati introdotti al fine di definire dei principi di sviluppo ed implementazione dell’analisi per poter rendere il più possibile gli studi comparabili. Lo standard ISO 14040 definisce i principi, la struttura e tutte le fasi di un’analisi LCA mentre lo standard ISO 14044 contiene tutte le informazioni di rilievo per l’esecuzione di un’analisi LCA. Alla base dello sviluppo di questi standard c’è il crescente interesse non solo europeo ma internazionale su tutti gli aspetti legati allo sviluppo sostenibile, al risparmio delle risorse ed all’efficienza dei processi produttivi. In questo articolo vedremo in cosa consiste l’analisi del ciclo di vita. I termini “Analisi del ciclo di vita”, “Life Cycle Assessment”, “LCA” saranno usati indistintamente per indicare lo stesso concetto.

Definizioni di ciclo di vita e Life Cycle Assessment

Partiamo dalle definizioni di Ciclo di Vita e Valutazione del ciclo di vita (Life Cycle Assessment). Gli standard ISO 14040 ed ISO 14044 forniscono la seguente definizione.

Ciclo di vita: fasi consecutive e interconnesse di un sistema (prodotto o servizio), dall’acquisizione delle materie prime o dalla generazione delle risorse naturali, fino allo smaltimento finale. Il concetto di ciclo di vita riprende l’approccio cosiddetto “dalla culla alla tomba” (“from cradle to grave”) alla base dell’LCA.

Life Cycle Assessment: compilazione e valutazione attraverso tutto il ciclo di vita degli elementi in ingresso e in uscita, nonché i potenziali impatti ambientali di un sistema di prodotto. In altre parole, in LCA si considerano

Nell’immagine precedente vediamo al centro tutte le fasi del ciclo di vita di un prodotto dalla estrazione delle materie sino alla gestione dei rifiuti. Ogni fase del ciclo di vita presenta del flussi di input che possono essere rappresentati dalle materie prime utilizzate durante la vita del prodotto sin dalla sua creazione e dei flussi di output che rappresentano tutti gli scarti.

Cosa si intende per LCA?

L’analisi del ciclo di vita (Life cycle assessment – LCA) è un metodo internazionalmente regolamentato, strutturato e completo. LCA serve a quantificare tutte le emissioni e le risorse principali consumate, identificare i principali impatti sull’ambiente e sulla salute, ed i problemi collegati al consumo delle risorse che sono associati ad ogni bene o servizio.

L’analisi del ciclo di vita prende in considerazione l’intero ciclo di vita di un prodotto dall’estrazione delle risorse, passando dalla produzione, dall’uso, dal riciclo sino allo smaltimento finale dei rifiuti.

Nella pratica, questo tipo di analisi LCA è stata definita in maniera tale da evitare di risolvere un problema ambientale mentre se ne crea un altro. E’ stato notato infatti che spesso per risolvere un problema se ne crea un altro spesso più grande e quindi si ha l’illusione di aver risolto un problema quando nella realtà lo si è spostato e questo perchè non si è analizzato il problema da un punto di vista globale. Un esempio tipico è quello in cui il miglioramento tecnologico della produzione porta a problemi di smaltimento delle materie oppure per ridurre l’effetto serra si aumenta il consumo del suolo oppure si riducono le emissioni in uno Stato e conseguentemente le si aumentano in un altro.

L’analisi del ciclo di vita è un valido strumento di supporto decisionale per aiutare a rendere il consumo e la produzione più sostenibile. L’analisi LCA è un processo sistematico ed iterativo. L’iterazione è un aspetto cruciale nell’analisi in quanto alcuni problemi potrebbero non essere individuati in principio oppure essere considerati solo parzialmente. E’ necessario quindi prendere in considerazione la ripetizione di ogni singolo step dell’analisi in modo da renderla più fine e più robusta.

Quante e quali sono le fasi di uno studio LCA?

Le fasi di uno studio LCA sono cinque e sono le seguenti:

  • definizione degli obiettivi;
  • definizione degli scopi;
  • analisi dell’inventario;
  • analisi degli impatti;
  • interpretazione.

Spesso obiettivi e scopi vengono analizzati insieme e quindi il numero di fasi di uno studio LCA si riduce a quattro. In questo articolo le consideriamo distinte in coerenza con con quanto indicato negli standard ISO.

Definizione degli obiettivi

La prima fase di una analisi del ciclo di vita è sempre la definizione degli obiettivi (capitolo 4.2.2 della ISO 14044:2006). Questa fase richiede che venga definito il contesto decisionale dell’analisi, le applicazioni della stessa e a chi si rivolge ovvero a chi è destinata tale analisi. Una chiara e netta definizione degli obiettivi è importante soprattutto per il corretto svolgimento delle fasi successive e per la corretta interpretazione dei risultati. Una chiara definizione degli obiettivi serve ad evitare che i risultati dell’analisi vengano erroneamente utilizzati per finalità diverse da quelle stabilite oppure in contesti non pertinenti.

Nella fase di definizione degli obiettivi di uno studio del ciclo di vita è necessario identificare e documentare almeno i seguenti punti.

  • Applicazioni dei risultati. L’applicazione o le applicazioni dei risultati dello studio LCA devono essere chiari e ben definiti in modo tale da rendere scarsamente probabile la possibilità di equivoco. Esempi classici di applicazioni sono: identificazione degli indicatori chiave di performance ambientali di un gruppo di prodotti; analisi dei punti deboli di un singolo prodotto; Ecodesign dettagliato; ecodesign semplificato; confronto tra prodotti specifici; confronto di specifici beni o servizi; etc…
  • Limiti della metodologia, assunzioni ed impatto. Se la definizione degli obiettivi comporta delle specifiche limitazioni all’utilizzo dei risultati dello studio LCA a causa della particolare metodologia applicata oppure delle assunzioni fatte, tutti questi aspetti vanno descritti e riportati nelle fasi successive dell’analisi. Tipicamente queste limitazioni necessitano di essere ridefinite nel corso dello studio.
  • Motivazione per lo svolgimento dell’analisi e descrizione del contesto decisionale. La definizione degli obiettivi deve indicare le ragioni per lo svolgimento di tale analisi, nominare chi svolge l’analisi, definire le motivazioni, identificarne il contesto decisionale. Le motivazioni che vengono dichiarate servono a capire a cosa ambisce lo studio e permette una maggiore comprensione sull’eventuale necessità di includere dati diversi oppure di svolgere una revisioni tra diverse analisi.
  • Tipologia di individui/professionalità/… cui l’analisi è rivolta. La definizione degli obiettivi deve identificare a chi è destinata l’analisi. Questo può significare, ad esempio, indicare a chi verrà comunicata e fornita l’analisi stessa. Alcuni esempi possono essere personale interno/esterno oppure tecnico/non tecnico etc. Diverse tipologie di pubblico implicano diverse considerazioni nella tipologia di documentazione presentata oppure ulteriori aspetti che possono derivare da necessità specifiche.
  • Dichiarazioni comparative da presentare al pubblico. Se lo studio LCA include una dichiarazione comparativa che si intende divulgare pubblicamente, allora questo deve essere esplicitamente dichiarato tra gli obiettivi dello studio. In tal caso, in virtù delle potenziali conseguenze di tali dichiarazioni, per poter essere conformi alla ISO 14040 ed alla ISO 14044 è necessario è soddisfare ulteriori requisiti specifici relativi alla modalità di esecuzione dell’analisi, redazione della documentazione e revisione dello studio. Sono da intendersi comparazioni quelle tra sistemi (ad esempio diversi prodotti) ma non all’interno dello stesso sistema (ad esempio analisi dei punti deboli di un prodotto).
  • Committente dello studio ed altre figure coinvolte. Tutti i finanziatori dello studio devono essere dichiarati all’interno degli obiettivi dello studio. Lo stesso vale per tutte le organizzazioni o enti che hanno una qualche influenza nello studio e chi è incaricato dello svolgimento dello studio.

Definizione degli scopi

La definizione degli ambiti (capitolo 4.2.3 della ISO 14044:2006) consiste nell’identificare e definire in dettaglio l’oggetto dello studio LCA come ad esempio il prodotto oppure il sistema oggetto di analisi. La definizione degli ambiti deriva da quanto è stato riportato nella fase di definizione degli obiettivi e deve includere e descrivere nel dettaglio quanto segue.

  • Tipo di risultati finali dello studio LCA coerentemente con quanto indicato con le applicazioni attese. Deriva da quanto specificato nella definizione degli obiettivi e quindi con le applicazioni dello studio e può essere specificato all’interno della definizione degli obiettivi. Di seguito sono riportati alcuni dei tipi più comunemente utilizzati.
    • Analisi dell’inventario (Life Cycle Inventory – LCI)
    • Analisi degli impatti (Life Cycle Impact Assessment – LCIA)
    • Analisi comparativa del ciclo di vita (Life Cycle Impact Assessment – LCA)
    • Modello LCI dettagliato del sistema analizzato
  • Il sistema o processo analizzato, le relative funzioni, l’unità funzionale ed i riferimenti. Dettagliare in maniera puntuale le funzioni di un sistema e le relative unità funzionali è fondamentale per costruire uno studio significativo e che sia comparabile. Uno studio LCA deve essere strettamente legato ad una descrizione precisa delle funzioni che il sistema analizzato deve svolgere. Descrivere una funzione significa fornire una descrizione quantitativa e qualitativa di quanto analizzato. Gli aspetti quantitativi e qualitativi della funzione vengono presentati attraverso l’unità funzionale che serve a risponde a domande del tipo “cosa”, “quanto”, “quanto a lungo”, “quanto bene”. In particolar modo quando il sistema descritto è rappresentato da un prodotto è utile accompagnare la descrizione con delle foto.
  • Inventario del ciclo di vita (LCI – Life Cycle Inventory), la struttura del modello L’inventario consiste nel definire i flussi di input ed output del sistema considerato. Prima di definire l’inventario occorre stabilire quale struttura utilizzare. Ci sono due tipi di struttura tipicamente utilizzati che sono l’attributiva e la consequenziale. Il modello di ciclo di vita attributivo illustra la catena di fornitura attuale o prevista, come viene utilizzata ed il relativo valore a fine vita. Il modello di ciclo di vita consequenziale illustra la generica catena di fornitura così come attesa da considerazioni teoriche basate sulle decisioni intraprese.
  • Confini del sistema, requisiti di completezza e relative regole di cut-off I confini del sistema permettono di delineare quali parti del ciclo di vita e quali processi appartengono al sistema analizzato. La definizione dei criteri di cut-off assieme alla definizione della massima incertezza tollerabile è la misura attraverso cui viene valutata la qualità dei risultati dello studio LCA.
  • Valutazione degli impatti del ciclo di vita Le informazioni provenienti dall’inventario e la fase di interpretazioni vengono unite tra loro tramite la valutazione degli impatti del ciclo di vita (LCIA – Life Cycle Impact Assessment ). La valutazione degli impatti serve altresì all’applicazione delle regole di cut-off per definire la completezza dei dati raccolti.
  • Altri requisiti di qualità dei dati LCI relativi alla rappresentatività e adeguatezza tecnologica, geografica e temporale. La qualità dei dati è determinata dalla valutazione della relativa rappresentatività, adeguatezza, completezza ed incertezza. Gli aspetti di rappresentatività sono particolarmente importanti in quanto lo studio LCA deve riflettere la realtà della catena di fornitura esistente oppure, quella attesa di una ipotetica catena di fornitura all’interno dei meccanismi di mercato e sulla base dei decisioni analizzate.
  • Tipi, qualità e fonti dei dati e delle informazioni richieste. Tipi e fonti di dati dati devono essere dettagliati e rianalizzati nella fase iterativa di definizione dell’inventario, della stima degli impatti e della interpretazione.
  • Requisiti speciali per il confronto tra sistemi. Un uso comparativo dell’LCA può avere implicazioni su altre aziende oppure istituzioni non direttamente coinvolte nello studio. Per questo motivo vengono introdotti degli ulteriori requisiti da soddisfare quando si effettua un confronto tra sistemi diversi. Tali requisiti consistono in specifiche che devono essere introdotte nel caso di pubblicazione dei risultati per tutelare eventuali terze parti e per evitare che questi risultati vengano fraintesi od equivocati.
  • Identificazione delle esigenze critiche di revisione. Si definisce il tipo di revisione prevista e possibilmente si specificano anche chi sono i revisori.
  • Pianificazione del report dei risultati. Tale pianificazione deve essere svolta sulla base del tipo di studio, degli obiettivi e del tipo di persone cui è destinata.

Analisi dell’inventario

L’analisi dell’inventario (LCI – Life Cycle Analysis) fornisce gli input per l’analisi LCIA e consiste nel collezionare, acquisire e modellare i dati (capitolo 4.3 della ISO 14044:2006). Questa fase serve per:

  • definire i flussi da e verso i processi;
  • identificare tutti gli studi statistici, le caratteristiche di prodotti e processi e tutte le informazioni attinenti non direttamente collegate all’analisi degli impatti.

L’insieme dei passaggi che compongono l’analisi dell’inventario comprendono:

  • identificare i processi che il sistema richiede;
  • pianificare la raccolta dei dati e delle informazioni;
  • raccogliere i dati dei processi fondamentali;
  • sviluppare dati generici nel caso che per ragioni economiche oppure ulteriori restrizioni non sia possibile disporre di dati specifici;
  • ottenere dati complementari;
  • mediare i dati tra processi e prodotti;
  • modellare il sistema interconnettendo e scalando correttamente gruppi di dati;
  • risolvere multifunzionalità nei processi del sistema;
  • calcolare i risultati di questa fase unendo input ed output di tutti i processi entro i confini del sistema.

Analisi degli impatti

In questa fase gli input ed output dei flussi elementari dei processi che sono stati raccolti nella fase di definizione dell’inventario, sono convertiti in indicatori di impatto collegati alla salute, all’ambiente ed al consumo delle risorse (capitolo 4.4 della ISO 14044:2006). L’analisi degli impatti si compone degli step seguenti:

  • calcolo dei risultati dell’analisi degli impatti tramite l’elaborazione dei risultati dell’analisi dell’inventario che vengono moltiplicati con i fattori caratterizzanti;
  • moltiplicazione dei risultati dell’LCIA con fattori normalizzati (opzionale);
  • moltiplicazione dei risultati precedenti con fattori pesati per avere una stima ponderata (opzionale).

Interpretazione

Nella fase di interpretazione i risultati della valutazione del ciclo di vita costituiscono gli strumenti attraverso cui vengono fornite le risposte alle domande poste nella fase di definizione degli obiettivi (capitolo 4.5 della ISO 14044:2006). Sono due gli obiettivi dell’interpretazione:

  1. indirizzare il lavoro migliorando l’analisi dell’inventario per meglio rispondere agli obiettivi dello studio;
  2. dedurre conclusioni che siano robuste ed eventualmente per fornire raccomandazioni.

In questa fase tutte le risultanze provenienti dagli altri step sono valutate insieme attraverso tre passi consecutivi:

  1. identificazione delle problematiche che possono essere legate ai parametri analizzati, alle assunzioni fatte o relative ai flussi elementari;
  2. valutazione delle problematiche e stima della completezza con cui queste problematiche sono state affrontante;
  3. utilizzo di queste risultanze provenienti dalla valutazione precedente al fine di formulare conclusioni e raccomandazioni dello studio;
    • ulteriori conclusioni e raccomandazioni nel caso sia uno studio comparativo.

Nell’immagine precedente è presentata la struttura completa di una valutazione del ciclo di vita.

Nell’immagine precedente sono schematizzate le fasi dell’interpretazione e si può notare quanto segue.

  • L’identificazione delle problematiche ha come input le risultanze delle fasi relative ad obiettivi, scopi, inventario e valutazione dell’impatto.
  • La verifica delle problematiche e della completezza, oltre a scambiare informazioni con la fase di identificazione delle problematiche, tiene conto di quanto definito negli obiettivi e negli scopi dello studio.
  • Identificazione e verifica delle problematiche innescano un processo iterativo di ridefinizione delle altre fasi dello studio che quindi porta ad un aggiornamento dell’interpretazione.

A cosa serve fare l’analisi del ciclo di vita di un prodotto?

L’analisi del ciclo di vita di un prodotto serve per valutare l’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio ovvero valutare gli effetti sulla salute umana, sull’ecosistema e sul consumo delle risorse naturali. L’analisi LCA viene utilizzata sempre di più per poter rendere lo sviluppo di un bene sostenibile ma soprattutto rappresenta per l’industria uno strumento per migliorare la competitività sul mercato e per migliorare il processo di progettazione attraverso una più efficiente scelta dei materiali e delle tecnologie utilizzate. Nel settore pubblico invece, un approccio basato sull’analisi LCA serve a fornire informazioni aggiuntive di supporto alle politiche strategiche di sviluppo fornendo informazioni aggiuntive sulle performance ambientali relative alla sviluppo di un bene, sia esso un prodotto oppure un servizio.

L’analisi LCA rappresenta uno strumento di supporto nel processo decisionale ma non è di per se uno strumento decisionale.

Limiti di un’analisi LCA

Una analisi LCA per essere completa deve considerare un ampio spettro di aspetti coinvolti nel processo produttivo. Essa richiede quindi una profonda conoscenza sia di quanto strettamente attinente al processo sia sui possibili impatti dello stesso. Ne consegue che, per quanto utile, è uno strumento di non facile implementazione che richiede tempo e quindi risorse economiche adeguate per essere svolto correttamente. A partire da quanto detto, è importante tenere presente quali possono essere i limiti di una analisi LCA. Tra i limiti di una analisi LCA si includono:

  • è un strumento con un focus specifico su talune operazioni e quindi andrebbe inquadrato nell’ottica di una analisi dei rischi di più ampio respiro;
  • si deve basare su dati affidabili che non sono sempre di facile reperibilità;
  • è molto influenzata dalla capacità, dalla conoscenza e dall’esperienza di quanti coinvolti nello sviluppo dell’analisi;
  • sebbene sia uno strumento di supporto al processo decisionale può indurre dei rallentamenti nello stesso;
  • etc.

Sviluppo sostenibile

Lo sviluppo sostenibile è l’insieme di tutti quei processi atti ad garantire sostenibilità ovvero a mantenere e preservare le risorse naturali, il degrado dell’ambiente ed il capitale sociale. In questo articolo vedremo gli aspetti principali che vanno a definire il concetto di sviluppo sostenibile.

Cosa si intende per sviluppo sostenibile?

Sviluppo sostenibile significa l’insieme di tutti i processi atti a sostenere i bisogni presenti senza pregiudicare quelli futuri.

Nel 1987, nel Rapporto Brundtland, la commissione mondiale sull’ambiente e sullo sviluppo definì quanto segue: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” . Questo rapporto prende il nome da Gro Harlem Brundtland, ex primo ministro norvegese che, all’epoca del suo secondo mandato venne nominata Presidente della commissione dall’allora Segretario delle Nazioni Unite Javier Pérez de Cuéllar.

Il concetto alla base dello sviluppo sostenibile è l’utilizzo di un approccio al progresso che permetta alla società di continuare ad esistere nel tempo. I bisogni economici, sociali ed ambientali sono alla base del progresso sociale ma, nel lungo periodo, rappresentano anche dei limiti se sono considerati in concorrenza. Tanto più lo sviluppo è sbilanciato verso uno di questi bisogni e questo viene perpetrato a lungo nel tempo, più gravi e più frequenti saranno le conseguenze che la società subirà. Un esempio è quello delle crisi finanziarie globali dovute a politiche bancarie irresponsabili oppure i cambiamenti climatici legati al sovra-consumo di combustibili fossili.

Intraprendere un percorso di sviluppo sostenibile significa soddisfare i bisogni delle comunità attuali e future promuovendo il benessere personale, inclusione e coesione sociale, pari opportunità in modo da assicurare una società che sia forte, sana e giusta.

Quali sono i pilastri dello sviluppo sostenibile?

I pilastri dello sviluppo sostenibile sono tre e sono descritti di seguito.

  1. Sostenibilità economica. Rappresenta la capacità di una economia a mantenere un buon livello di crescita nel tempo. Alla base della sostenibilità economica vi è la riduzione della povertà estrema e la possibilità di garantire un lavoro adeguatamente retribuito a tutti.
  2. Sostenibilità ambientale. Implica l’utilizzo delle risorse ambientali in maniera tale che la società possa sfruttarle in maniera da potersi sostenere per un tempo indefinito. Alla base della sostenibilità ambientale vi è la protezione del naturale equilibrio del pianeta ed il contenimento dell’impatto dell’attività dell’uomo sull’ambiente;
  3. Sostenibilità sociale. Si realizza quando le leggi ed i processi che governano una società supportano attivamente la capacità delle generazioni presenti e future di svilupparne il benessere. Alla base della sostenibilità sociale vi è la capacità di garantire l’accesso a risorse e servizi di base a tutti.

Questi pilastri non rappresentano delle dimensioni separate ed a sé stanti bensì vanno intese interconnesse le une alle altre. Rappresentano quindi gli ambiti verso i quali è necessario indirizzare gli sforzi per costruire un futuro inclusivo, sostenibile e resiliente per le persone e per il pianeta.

Una società che sviluppa in armonia tutti e tre i pilastri di sostenibilità sociale economica ed ambientale è detta sostenibile.

Una società che sviluppa maggiormente i pilastri di sostenibilità sociale ed ambientale è detta vivibile.

Una società che sviluppa maggiormente i pilastri di sostenibilità sociale ed economica è detta equa.

Una società che sviluppa maggiormente i pilastri di sostenibilità ambientale ed economica è detta realizzabile.

Perché è importante lo sviluppo sostenibile?

Lo sviluppo sostenibile è importante in quanto si pone come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita e quindi il benessere delle persone. Per poter ambire a questo obiettivo è necessario che le tematiche ambientali, sociali ed economiche si evolvano in equilibrio fra loro. In base a questo paradigma l’elemento imprescindibile per raggiungere uno sviluppo sostenibile è che vi sia una evoluzione armonica ed interconnessa di sviluppo economico, inclusione sociale e protezione ambientale.

Il concetto di sviluppo sostenibile è oggi strettamente connesso all’idea di rispetto ambientale. Questo avviene poiché il cambiamento climatico in atto mette alla luce le contraddizioni portate dalla logica del profitto a breve termine che spesso viene ottenuto a spese di un degrado ambientale le cui ripercussioni sono a lungo termine. In realtà l’idea alla base dello sviluppo sostenibile si estende alla possibilità di adottare tutte quelle strategie che possono, nel tempo, permettere di assicurare a quante più persone possibili la possibilità di vivere una vita equa, in un ambiente equilibrato e svolgendo un lavoro che sia adeguato al soddisfacimento dei propri bisogni. A titolo di esempio, per capire l’importanza e quindi il significato dello sviluppo sostenibile immaginiamo cosa significherebbe l’opposto dello sviluppo sostenibile. Vivere in una società basata su concetti opposti allo sviluppo sostenibile potrebbe portare a vivere una vita in cui il lavoro svolto non viene ricambiato da un reddito adeguato, mentre si vive in un ambiente talmente sfruttato e degradato da mettere a repentaglio la propria salute in una società in cui i servizi essenziali sono a panaggio prevalentemente di chi può permetterselo.

Quanti sono gli obiettivi di sviluppo sostenibile?

Affinché il concetto di sviluppo sostenibile non rimanesse relegato ad una idea astratta sono stati stabiliti degli obiettivi. Questi obiettivi servono anche da metrica per la valutazione della situazione attuale e quindi rappresentano un indice di come questa si evolva nel tempo. L’ONU, un’organizzazione nata per per garantire la pace, la sicurezza ed il progresso tramite la collaborazione tra i governi delle nazioni iscritte, ha definito per prima questi obiettivi nella conferenza di Rio de Janeiro, in Argentina, nel 2012.

Gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, come definiti dall’ONU, sono 17.

Mettere fine alla povertà, in ogni sua forma, in tutto il mondo.

Mettere fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare l’alimentazione e promuovere una agricoltura sostenibile.

Assicurare una vita sana e promuovere il benessere fisico per tutti a tutte le età.

Assicurare una istruzione inclusiva ed equa vita sana e promuovere il benessere fisico per tutti a tutte le età e promuovere opportunità formative per tutti a tutte le età.

Raggiungere una uguaglianza di genere e favorire l’emancipazione di donne e ragazze.

Assicurare a tutti l’acqua, garantire una gestione sostenibile dell’acqua e disponibilità di servizi igienico-sanitari.

Assicurare a tutti la disponibilità di accedere a moderne forme di energia e che queste siano economicamente accessibili, affidabili e sostenibili.

Promuovere la possibilità di una crescita economica che sia inclusiva e sostenibile e di avere un impiego lavorativo a tempo pieno produttivo e dignitoso per tutti.

Costruire infrastrutture resilienti, promuovere una industrializzazione inclusiva e sostenibile e favorire l’innovazione.

Ridurre le diseguaglianze negli e tra gli Stati.

Costruire città ed insediamenti inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili.

Assicurare modelli sostenibili di consumo e produzione.

Intraprendere misure immediate per contrastare il cambiamento climatico ed i suoi impatti.

Preservare e sostenere l’utilizzo delle risorse marine per uno sviluppo sostenibile.

Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile di ecosistemi sostenibili, gestire in maniera sostenibile le foreste, contrastare la desertificazione, fermare e invertire il degrado dell’ambiente e fermare la perdita di biodiversità.

Promuovere società inclusive e pacifiche ed accesso alla giustizia per tutti attraverso la costruzione di istituzioni a tutti i livelli che siano effettive inclusive ed affidabili.

Rafforzare i gli strumenti e la collaborazione globale per lo sviluppo sostenibile.

Tutti questi obiettivi presentano a loro volta dei sotto obiettivi detti target che ci si prefissa di raggiungere e, per ogni target, degli indicatori per permettere di quantificarne i progressi.

Differenza tra sostenibilità e sviluppo sostenibile

I concetti di sostenibilità e sviluppo sostenibile spesso si mischiano e vengono utilizzati indistintamente. Tuttavia rappresentano aspetti leggermente diversi tra loro. Per sostenibilità si intende la capacità di un qualcosa di mantenersi stabile nel tempo e, in termini di sviluppo, rappresenta quindi un obiettivo da raggiungere nel medio-lungo termine. Lo sviluppo sostenibile invece indica l’insieme di processi, strategie ed azioni intraprese per il raggiungimento della sostenibilità.

In altre parole, potremmo dire che sviluppo sostenibile è tutto ciò che permette di raggiungere sostenibilità.


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